Un’inchiesta della Questura di Verona individua una decina di poliziotti come autori di violenze indebite verso immigrati, senzatetto e tossicodipendenti. Sospesi dal servizio, insieme ad altri colleghi omertosi, rischiano il rinvio a giudizio. Massima trasparenza da parte degli organi inquirenti.
IL FATTO
A Verona, da luglio 2022 a marzo di quest’anno, una decina di poliziotti in servizio sulle Volanti, hanno infierito su senzatetto, tossicodipendenti ed extracomunitari fermati in strada per semplici controlli.
Schiaffi e calci, insulti e spray al peperoncino, trascinamento nell’urina, odio razziale, rientrano nei metodi usati.
Capi di accusa gravi per servitori dello Stato e garanti della sicurezza pubblica.
Negli ultimi decenni la Polizia ha pagato un pesante tributo di sangue nell’adempimento del dovere e sarebbe ingiusta una generalizzazione negativa per colpa di qualche mela marcia.
Come per ogni istituzione, fatti del genere ne screditano l’immagine e la credibilità.
UNA RIFLESSIONE S’IMPONE
Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi sono i casi più eclatanti di due giovani fermati dalle Forze dell’Ordine per un controllo e pestati a sangue fino alla morte.
Solo grazie a un calvario giudiziario dei familiari si sono ricostruite le loro vicende e ridato dignità alle loro persone consegnando alla giustizia poliziotti e carabinieri che avevano perso il controllo o che, nell’ebrezza della divisa, si sentivano ingiudicabili e legittimati a pestare.
Il numero di crimini commessi da esponenti delle forze dell’ordine e balzati alle cronache ci pone di fronte a qualcosa di ben diverso da episodi isolati.
Si tratta di un fenomeno che pone interrogativi su una serie di temi come la gestione dell’ordine pubblico, i rapporti tra polizia giudiziaria e organi inquirenti, la mentalità semi-militarista che si traduce in atteggiamenti repressivi, la formazione, l’addestramento, le modalità di reclutamento e arruolamento, lo spirito di corpo e, non ultimo, il senso di impunità.
La ricerca della verità dipende dall’integrità professionale di un giudice o di un funzionario di polizia poco incline al compromesso; può dipendere dal cinismo di un difensore, da un PM che decide di archiviare o da un GiP che dia luogo o meno a procedere in un’azione legale.
Chi indossa gli alamari ha più doveri di chi non li indossa.
COSA DICE LA LEGGE
L’articolo 3 della Costituzione italiana parla chiaro:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]”.
L’articolo 3 va di pari passo con l’articolo 13:
“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
ASPETTO SOCIOLOGICO
Uno dei punti fermi della famosa Zero Tolerance di Rudolph Giuliani era il riconoscimento di poteri discrezionali alla polizia nel procedere ad arresti, fermi e perquisizioni personali. era il singolo poliziotto a decidere chi fermare e in che modo farlo.
Questa mentalità ha portato alle derive perpetrate ai danni soprattutto di afro-americani uccisi ingiustamente per un soffocamento o l’esplosione indebita di qualche colpo di pistola.
In Italia, il modello della Tolleranza zero ha vissuto anche diversi tentativi di emulazione, tutti conclusi con scarso successo, ma che hanno lasciato, e lasciano tuttora, un segno.
Le difficoltà del mestiere, lo stipendio esiguo, il rischio di non tornare a casa la sera, il doversi rapportare ogni giorno con gli aspetti peggiori della società, sono tutte attenuanti che rendono un poliziotto colpevole un po’ meno colpevole.
il risultato è il lento, ma crescente consenso a una cultura della violenza, per strada e nelle carceri, come strumento di mediazione dei conflitti sociali.
Come a dire che le polizie hanno due strumenti a disposizione: il dialogo o le botte.
Secondo Max Weber lo Stato detiene il monopolio della violenza in qualsiasi occasione lo ritenga necessario: dall’insurrezione armata a qualsiasi occasione in cui la sovranità dello Stato e l’ordine pubblico vengano messi in discussione.
Bisogna solo intendersi su quali siano i reali pericoli per lo Stato e per l’ordine costituito: la diffusa legittimazione della violenza in divisa o la condotta criminale del delinquente comune?
Cos’è che trasforma un intervento di routine in qualcos’altro?
Come viene giudicato un poliziotto che commette un abuso, sostenendo di essere stato costretto a farlo?
Un pubblico ufficiale è prima di tutto un cittadino, che per professione e vocazione si relaziona ad altri cittadini. Spetta ai giudici condannarli o assolverli, secondo legge e secondo coscienza.
L’importante Codice europeo di etica per la polizia (CeeP), che stabilisce i modelli comportamentali degli operatori di polizia, orientati al rispetto dei vincoli imposti dalle leggi e dai principi etici.
All’art. 1 si legge: “Gli scopi principali della polizia in una società democratica governata dallo Stato di diritto sono: mantenere la serenità pubblica, la legge e l’ordine nella società; protegge re e rispettare i diritti fondamentali dell’individuo e le libertà, contenuti in particolare nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo; prevenire e combattere il crimine; investigare il crimine; offrire assistenza e funzioni di servizio alla popolazione”.
Gli accordi internazionali a protezione dei diritti umani – ratificati anche dall’Italia – vietano la tortura nonché ogni trattamento crudele, disumano o degradante.
Eppure, ci sono storie nel nostro Paese in cui la legge annulla se stessa…