“Anora”, ultima opera di Sean Baker, si inserisce nel solco del cinema che esplora il lato più marginale della società, ma con una peculiarità che lo distingue: un’indagine lucida e quasi antropologica sulla cultura dell’effimero, del consumo e della mercificazione del corpo. Vincitore dell’Oscar come miglior film, il lungometraggio si fa portatore di un’estetica realista, ma nel contempo ironica e grottesca, che rende il racconto una riflessione sulla precarietà esistenziale e morale della modernità.
Il corpo come merce e l’illusione del riscatto
La protagonista, Ani, interpretata da una straordinaria Mikey Madison, è una giovane spogliarellista di Brooklyn che si ritrova coinvolta in una relazione con Vanya, figlio di un oligarca russo. La loro storia è apparentemente il sogno di ogni Cenerentola moderna: una ragazza di periferia che conquista la scalata sociale attraverso il matrimonio con un uomo ricco e potente. Ma il film smonta rapidamente questa illusione: Ani è un simbolo della donna oggetto nel mondo contemporaneo, strumentalizzata dal potere e dalle strutture patriarcali, ma allo stesso tempo agente di una strategia personale per la sopravvivenza.
Qui Baker ci mostra con lucidità che la società postmoderna ha sostituito l’etica con l’estetica, il valore con il prezzo: il corpo di Ani è la sua risorsa primaria, il mezzo con cui può tentare di sfuggire alla miseria. Tuttavia, come in una perfetta tragedia del capitalismo tardivo, ciò che sembra un’opportunità è in realtà una condanna.
Realismo sociale e cinismo dello sguardo
Lo stile registico di Baker richiama quello dei Dardenne e di Ken Loach, ma con una maggiore tendenza alla satira e al grottesco. Il film è girato con una fotografia quasi documentaristica, che sottolinea la cruda realtà della protagonista, in netto contrasto con il mondo sfavillante e finto che sogna di raggiungere.
Il cinema di Baker ha sempre raccontato l’America degli invisibili, di chi è schiacciato dal meccanismo della sopravvivenza, e “Anora” non fa eccezione. Tuttavia, mentre in altri suoi film, come Tangerine o The Florida Project, c’era uno spiraglio di umanità che lasciava aperta la possibilità di un riscatto, qui domina un senso di inevitabile disfatta. Ani è un’eroina tragica, ma non perché combatta per un ideale o una redenzione, bensì perché è intrappolata in una struttura che la sovrasta.
Femminismo o sfruttamento?
Uno degli aspetti più controversi di “Anora” è la sua rappresentazione della femminilità. Alcuni critici hanno esaltato il film come un’opera femminista, che mostra la determinazione di una donna a sopravvivere in un mondo dominato dagli uomini. Altri, invece, lo hanno criticato per la sua mancanza di profondità nella rappresentazione della condizione femminile, riducendo Ani a un simbolo senza reale agency.
Il film, infatti, non idealizza né demonizza la protagonista: Ani è sia vittima che complice del sistema in cui vive. Ma la domanda che il film lascia aperta è: è davvero una storia di emancipazione o è solo l’ennesima narrazione del corpo femminile come merce di scambio?
L’alienazione dell’amore e la cultura dell’“usa e getta”
Oltre alla riflessione sul corpo come valore economico, “Anora” è una profonda critica alla cultura dell’“usa e getta”, sia materiale che relazionale. L’amore è transazione, l’identità è performance, il futuro è un’incognita che dipende solo dalla capacità di restare a galla nel presente.
Ani e Vanya non vivono un amore romantico, ma una relazione costruita su desideri superficiali e reciproci interessi, che si dissolve non appena emergono le prime difficoltà. Questo rispecchia perfettamente la crisi delle relazioni interpersonali nella società postmoderna, in cui i legami sono sempre più fragili e sostituibili.
L’intera narrazione sembra dirci che non esistono più strutture solide, né nella sfera economica né in quella affettiva: tutto è precario, tutto è destinato a consumarsi rapidamente.
Il fallimento del sogno americano
“Anora” è un film che parla di desideri, illusioni e disillusioni, e che si pone come un’amara riflessione sul fallimento del sogno americano. In un’epoca in cui tutto sembra accessibile, la verità è che il sistema continua a creare vincitori e vinti, e i confini tra chi domina e chi è dominato restano rigidi e invalicabili.
Sean Baker ci regala un’opera spietata, ironica e tragica, che lascia lo spettatore con una domanda inquietante: cosa resta dell’essere umano quando ogni cosa, anche il corpo e l’amore, diventa merce?