Un Paese dimenticato dalla comunità internazionale

La Birmania è un paese che da quattro anni vive un conflitto civile sempre più sanguinoso, figlio del colpo di Stato militare del 2021 e della repressione sistematica di ogni forma di dissenso. Il Papa, domenica scorsa, ha lanciato un nuovo appello per la pace in un paese ormai ridotto allo stremo, chiedendo la fine della violenza e una riconciliazione tra le parti. Tuttavia, mentre la comunità internazionale sembra impotente, la crisi birmana si aggrava giorno dopo giorno, lasciando la popolazione intrappolata tra fame, povertà e paura.

A ricordare la gravità della situazione è stata Aide à l’Église en détresse, che il 1° febbraio ha indetto una giornata mondiale di preghiera per la pace in Birmania. La loro denuncia è chiara: “I nostri fratelli e sorelle soffrono bombardamenti, fame e isolamento. I sacerdoti e i religiosi rischiano la vita per portare conforto alle comunità più lontane, ma la repressione militare non si ferma.” Il Papa ha raccolto questo grido e lo ha rilanciato al mondo, ma la realtà sul campo appare drammatica.

Un conflitto sempre più diffuso

L’ambasciatore dell’Unione Europea a Rangoon, Ranieri Sabatucci, ha dichiarato che la ribellione contro la giunta militare ormai coinvolge tutto il paese. Dopo quattro anni di guerra civile, i militari hanno perso il controllo di vaste aree, in particolare nel nord-est e nella regione del Rakhine, dove gruppi armati locali stanno rovesciando la dominazione della giunta. Anche la maggioranza bamar, tradizionalmente fedele al regime, sta iniziando a ribellarsi. L’economia è in ginocchio: oltre metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, migliaia di persone stanno cercando rifugio nei paesi vicini, mentre la disoccupazione e la fame aumentano senza sosta.

In un contesto di disperazione, il regime ha introdotto la coscrizione obbligatoria, costringendo i giovani a combattere una guerra sempre più impopolare. L’effetto è stato opposto a quello sperato: molti scappano, si nascondono o si uniscono alle forze ribelli. L’ultima trovata della giunta, la leva obbligatoria anche per le donne, sembra un segnale di disperazione più che una strategia efficace. Come ha sottolineato Sabatucci, “hanno portato il conflitto in ogni famiglia.”

Il silenzio dell’Occidente e il ruolo ambiguo della Cina

Mentre la Birmania brucia, la risposta della comunità internazionale è blanda e inefficace. L’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni alla giunta, ma senza un impatto decisivo. La Cina, invece, ha un ruolo più ambiguo: da un lato media tregue con alcuni gruppi ribelli, dall’altro continua a sfruttare economicamente il paese, mantenendo un rapporto privilegiato con i militari. Pechino ha interesse a evitare il caos totale, ma non sembra intenzionata a favorire una vera transizione democratica.

Nel frattempo, il regime birmano cerca di stabilizzare il proprio potere annunciando elezioni farsa per il 2025, che non saranno né libere né inclusive. Più del 60% del territorio è fuori controllo dei militari e il partito democratico di Aung San Suu Kyi non potrà partecipare. Di fatto, sarà un’elezione senza opposizione, un tentativo disperato della giunta di legittimarsi agli occhi del mondo.

La speranza della preghiera e la voce del Papa

Papa Francesco ha più volte parlato della Birmania, ricordando la sofferenza del popolo e delle minoranze cristiane e Rohingya. In un momento in cui la violenza e la repressione sembrano aver vinto, il suo appello alla preghiera e alla riconciliazione diventa un segno di speranza.

Tuttavia, le parole da sole non bastano. La comunità internazionale deve smettere di considerare la Birmania una crisi secondaria e agire con decisione per fermare la violenza, garantire aiuti umanitari e sostenere il popolo birmano nella sua lotta per la libertà. Perché, come ha detto il Papa, “No alla guerra che distrugge tutto, no alla guerra che uccide la vita”.