L’invasione di Israele nei campi profughi della Cisgiordania segna un punto di non ritorno. Da decenni la violenza è una costante, ma mai dalla Seconda Intifada si era visto un assedio così prolungato e sistematico. Mai dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 così tante persone erano state sfollate forzatamente in così poco tempo. Oltre 40.000 palestinesi cacciati dalle loro case, campi profughi rasi al suolo e trasformati in terreni spianati da bulldozer e carri armati. Un copione già visto a Gaza, che ora si ripete nelle città della Cisgiordania.
La narrazione israeliana giustifica l’operazione come una necessità per la sicurezza, per eliminare “nidi di terrorismo”, ma la realtà sul terreno racconta un’altra storia. Case bruciate, famiglie intere costrette a vivere in scuole abbandonate, strade distrutte e infrastrutture cancellate. Una guerra che non è più soltanto contro Hamas o le fazioni armate, ma contro la stessa esistenza della popolazione palestinese nei propri territori.
Dallo sfollamento alla ridefinizione del territorio: una strategia calcolata
L’operazione militare israeliana nella Cisgiordania settentrionale non è un’azione isolata. È il tassello di una strategia più ampia, che punta a modificare il tessuto stesso dei campi profughi, stravolgendone l’urbanistica e impedendo il ritorno degli sfollati. Israele, con l’occupazione prolungata, non sta solo colpendo gruppi armati, ma sta cercando di smantellare le comunità palestinesi, rendendo impossibile una loro ricostruzione.
Secondo fonti vicine all’esercito israeliano, i campi profughi di Tulkarem, Nur Shams e Jenin verranno trasformati con nuove strade, edifici più alti e modifiche urbanistiche tali da impedire il ritorno alla vita precedente. Una strategia già vista nei campi di Shati e Yabalia a Gaza nel 1971, quando l’esercito israeliano demolì intere aree per aprire grandi viali e impedire il formarsi di centri di resistenza.
Il governatore di Tulkarem, Abdala Kmail, lo dice chiaramente: “Israele sta agendo come se fosse una zona di guerra, quando in realtà ci saranno al massimo una trentina di combattenti armati. Vogliono creare una nuova realtà”.
Punizione collettiva: un crimine di guerra normalizzato
Ciò che sta accadendo in Cisgiordania è molto più di una semplice offensiva militare: è una forma di punizione collettiva, vietata dal diritto internazionale. I residenti vengono sfollati senza possibilità di ritorno, le loro case distrutte senza alcuna distinzione tra combattenti e civili.
La distruzione delle infrastrutture e l’impedimento agli aiuti umanitari rendono la situazione ancora più grave. L’ONU ha confermato che almeno 68 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane solo nei primi due mesi dell’anno, di cui sei bambini. Anche Israele ha perso tre soldati, ma la sproporzione delle vittime racconta una guerra asimmetrica, in cui un esercito occupante impone il terrore su una popolazione civile disarmata.
E se a Gaza Israele è stato accusato di genocidio dalla Corte Internazionale di Giustizia, cosa dire della Cisgiordania? Il trasferimento forzato di popolazioni è un crimine di guerra secondo lo Statuto di Roma, eppure tutto avviene sotto gli occhi del mondo, con il silenzio complice della comunità internazionale.
Cancellare i rifugiati: l’attacco all’UNRWA e il piano per il “giorno dopo”
Israele ha già dimostrato di voler eliminare la presenza dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, accusandola di insegnare odio e antisemitismo. Ma l’obiettivo non è solo togliere il controllo delle scuole o degli aiuti umanitari: è cancellare la stessa identità dei rifugiati palestinesi.
Negare lo status di rifugiati significa cancellare la memoria storica della Nakba, la pulizia etnica del 1948, e con essa il diritto al ritorno. È lo stesso concetto su cui si basa il piano di Trump per Gaza, che mira a svuotare l’enclave palestinese e distribuirne la popolazione nei paesi vicini.
Se lo si unisce all’annessione di fatto della Cisgiordania da parte dell’estrema destra israeliana, il quadro diventa chiaro: non si tratta solo di sicurezza, ma di un progetto politico per trasformare definitivamente la geografia del conflitto, eliminando la presenza palestinese in modo sistematico.
Gaza e Cisgiordania: due fronti di un’unica guerra
La guerra non è più solo a Gaza, ma ha ormai inghiottito anche la Cisgiordania. E non è un caso. Con la tregua imposta dal cessate il fuoco con Hezbollah in Libano e la momentanea pausa nei combattimenti a Gaza, Israele ha spostato il suo apparato militare sulla Cisgiordania, intensificando le operazioni nei campi profughi.
L’obiettivo? Smantellare la resistenza palestinese, militarizzare il territorio e consolidare il controllo sui territori occupati. E dietro a tutto questo c’è l’ideologia dell’estrema destra israeliana, che vede nella Cisgiordania non un territorio occupato, ma una parte inseparabile di Israele da annettere definitivamente.
Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e leader della destra ultranazionalista, ha dichiarato il 2025 come l’anno dell’annessione della Cisgiordania. In pratica, la guerra è diventata il pretesto per completare l’opera di colonizzazione iniziata nel 1967 e mai interrotta.
Un’Europa silenziosa, un mondo distratto
Mentre in Palestina si consuma questa nuova fase del conflitto, la comunità internazionale rimane paralizzata. Gli Stati Uniti, sempre più vicini alle elezioni, evitano di mettere pressione su Israele per non alienarsi l’elettorato filo-israeliano. L’Unione Europea, dopo il taglio dei fondi all’UNRWA, si è dimostrata incapace di avere una politica autonoma.
E nel frattempo, in Cisgiordania e a Gaza, i palestinesi continuano a morire, sfollati nelle proprie terre, senza una casa, senza uno Stato, senza un futuro.
Per quanto tempo ancora il mondo potrà guardare altrove?