Negli ultimi anni, il cambiamento climatico è diventato una delle principali cause di migrazione forzata, anche se il dibattito politico e mediatico tende a trascurare questo legame sempre più evidente. Le immagini delle barche sovraccariche di migranti nel Mediterraneo dominano le cronache, ma raramente ci si interroga sulle cause profonde di questi spostamenti di massa.

Eppure, è sempre più chiaro che la crisi climatica non è solo una questione ambientale, ma una crisi umanitaria e geopolitica senza precedenti. Il riscaldamento globale, con il suo carico di siccità, desertificazione, innalzamento del livello del mare e eventi estremi, sta trasformando intere regioni in luoghi inabitabili, costringendo milioni di persone ad abbandonare le proprie case.

Dalla crisi ambientale alla crisi migratoria

Se pensiamo ai migranti climatici, immaginiamo spesso le popolazioni dell’Africa subsahariana in fuga dalla desertificazione o le isole del Pacifico minacciate dall’innalzamento del mare. Ma il fenomeno è ben più vasto: nel solo 2023, oltre 20 milioni di persone nel mondo sono state costrette a spostarsi a causa di disastri ambientali.

Molti di questi migranti non attraversano i confini internazionali, rimanendo all’interno dei propri Paesi come sfollati interni. Ma quando la situazione diventa insostenibile, le migrazioni climatiche si sommano a quelle economiche e politiche, alimentando i flussi verso l’Europa.

Quali sono i principali fattori climatici che spingono alla migrazione?

• Siccità e desertificazione: in vaste aree dell’Africa e del Medio Oriente, l’agricoltura è sempre più difficile a causa della scarsità d’acqua. Le popolazioni rurali non possono più sostenersi con la terra e sono costrette a spostarsi.

• Eventi climatici estremi: uragani, inondazioni e incendi distruggono comunità intere, rendendo impossibile la ricostruzione.

• Innalzamento del livello del mare: minaccia città costiere e isole, costringendo migliaia di persone ad abbandonare le proprie case.

Questi fenomeni non sono più minacce astratte: stanno accadendo oggi, e in misura sempre maggiore.

L’Italia tra due emergenze: accoglienza e sfollati interni

L’Italia si trova al centro di questo fenomeno, sia come Paese di approdo per i migranti climatici internazionali, sia come luogo in cui sempre più persone sono costrette a lasciare le proprie case per eventi estremi.

Nel 2023, il Ministero dell’Interno ha registrato oltre 157.000 arrivi via mare, un numero in crescita rispetto agli anni precedenti. La narrazione dominante attribuisce l’aumento degli sbarchi esclusivamente ai trafficanti di esseri umani o alle politiche dei governi di turno. Ma quanto di questo fenomeno è legato alla crisi climatica?

Molti migranti provengono da Paesi come Senegal, Guinea, Costa d’Avorio, Nigeria e Sudan, aree in cui l’impatto del cambiamento climatico è devastante. Qui, le condizioni di vita sono sempre più dure: agricoltura e pesca si stanno riducendo drasticamente, aumentando la povertà e la competizione per le risorse.

Ma l’Italia non è solo una destinazione per migranti climatici: stiamo diventando anche un Paese di sfollati interni a causa del clima.

Secondo i dati dell’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC)negli ultimi dieci anni oltre 70.000 italiani sono stati costretti a lasciare temporaneamente le proprie case per eventi climatici estremi. Alluvioni, frane, incendi e siccità stanno cambiando la geografia umana del nostro Paese.

La storia di Silvia Ortelli, alluvionata tre volte a Faenza, è solo un esempio. Ogni anno, centinaia di famiglie italiane vivono la stessa situazione: le loro case vengono distrutte, i loro beni perduti e l’incertezza diventa la loro unica certezza.

Siamo pronti a riconoscere di essere già migranti climatici dentro i confini nazionali?

Perché il diritto internazionale ignora i rifugiati climatici?

Nonostante l’evidenza, la Convenzione di Ginevra del 1951 – il principale strumento giuridico per la protezione dei rifugiati – non riconosce i migranti climatici come rifugiati. Per essere considerati tali, infatti, bisogna dimostrare di essere fuggiti da persecuzioni politiche, religiose o etniche.

Ma chi tutela chi fugge da una terra che non può più sfamarlo?

L’ONU e alcune organizzazioni umanitarie hanno iniziato a proporre modifiche alle normative sui rifugiati, ma per ora nessuno Stato sembra disposto a riconoscere questa categoria. Per i Paesi occidentali, significherebbe aprire la porta a milioni di persone in fuga dalla crisi climatica.

Il paradosso è evidente: gli stessi Paesi che più hanno contribuito al cambiamento climatico si rifiutano di riconoscerne le conseguenze umane.

Cosa fare? Una politica lungimirante invece della retorica securitaria

L’immigrazione legata al clima non è una minaccia improvvisa, ma una realtà che si intensificherà nei prossimi anni. Continuare a trattarla come un problema di sicurezza, con blocco navale e respingimenti, significa solo ignorare le cause strutturali e alimentare tensioni sociali.

Ecco alcune misure che un governo lungimirante dovrebbe adottare:

1. Riconoscere lo status di rifugiati climatici, lavorando con l’UE e l’ONU per una revisione delle convenzioni internazionali.

2. Investire in politiche di adattamento nei Paesi più colpiti, aiutando le comunità a resistere ai cambiamenti climatici per evitare migrazioni forzate.

3. Pianificare la gestione dei flussi migratori, evitando approcci emergenziali e costruendo un sistema di accoglienza sostenibile.

4. Proteggere i cittadini italiani dalle conseguenze del clima, con piani di prevenzione e gestione delle catastrofi per ridurre gli sfollamenti interni.

5. Riconoscere il legame tra clima e immigrazione nei dibattiti pubblici, smettendo di considerare il fenomeno come esclusivamente economico o criminale.

Il futuro è già qui: abbiamo il coraggio di vederlo?

Il cambiamento climatico sta cancellando le certezze geografiche e sociali che abbiamo sempre dato per scontate. Chi oggi chiude gli occhi davanti ai migranti climatici africani potrebbe trovarsi domani nella loro stessa condizione.

Siamo pronti ad accettarlo? Oppure continueremo a ignorare il problema fino a quando sarà troppo tardi?

La verità è che non esistono più confini sicuri dal cambiamento climatico. Possiamo ancora scegliere se affrontarlo con intelligenza e solidarietà, oppure se subirlo con miopia e conflitti.

Ma il tempo stringe. E, come ha dimostrato l’ultima COP29 di Baku, i governi del mondo stanno facendo troppo poco, troppo lentamente.

La domanda che resta è una sola: quanto dovremo perdere prima di capire che siamo tutti migranti climatici?