Un nuovo colore oltre il nero e il rosso

Per decenni abbiamo pensato la politica come una battaglia tra destra e sinistra, tra il nero del conservatorismo e il rosso del progressismo. Oggi questa distinzione è un guscio vuoto: il conflitto reale non è più tra ideologie tradizionali, ma tra élite e classi popolari. Il colore della politica è cambiato: non è più né nero né rosso, ma un grigio indistinto, fatto di tecnocrazia, interessi finanziari e guerre economiche. E soprattutto, di un divario crescente tra chi governa e chi è governato.

Dalla politica delle idee alla politica delle élite

In Italia, il Partito Democratico è diventato il partito delle ZTL, delle élite urbane e dei professionisti benestanti. È il partito di chi vive nei quartieri residenziali di Milano, Roma e Torino, di chi può permettersi di parlare di transizione ecologica senza preoccuparsi delle bollette, di chi discute di diritti civili ma ignora la crescente precarietà lavorativa. Il PD, che un tempo incarnava la sinistra popolare, oggi è il simbolo di un’élite intellettuale e cosmopolita, distante anni luce dalla realtà delle periferie e delle province.

Dall’altra parte, la destra ha saputo raccogliere il malcontento, ma senza proporre un modello alternativo. Giorgia Meloni ha scalato il potere sfruttando la retorica del popolo contro le élite, ma una volta arrivata al governo ha mantenuto l’assetto economico precedente. Il sogno berlusconiano, che almeno offriva un’illusione di mobilità sociale e benessere, si è dissolto. Non ci sono più “il sogno degli italiani”, ma solo la gestione del potere per chi lo detiene già.

Il nuovo paradigma: la guerra come modello economico

Quindici anni di crisi economiche, pandemia e guerre hanno distrutto qualsiasi visione politica alternativa. Se durante il Covid si gridava al complotto contro Big Pharma perché le risorse pubbliche venivano dirottate dai missili ai vaccini, oggi il discorso è ribaltato: siamo in un’economia di guerra permanente. Il conflitto in Ucraina ha trasformato il bilancio statale di molti paesi occidentali, compresa l’Italia, in una macchina da guerra. I fondi destinati alla sanità, all’istruzione, al welfare, vengono sempre più assorbiti dall’industria della difesa.

Chi guadagna? Le grandi industrie belliche e i gruppi finanziari che le controllano. In un contesto di recessione per la classe media, i colossi dell’armamento registrano profitti record. La politica non governa più, amministra le risorse secondo le logiche del mercato globale: quando l’agenda era sanitaria, si investiva nella farmaceutica; ora che è bellica, si finanziano gli arsenali.

L’economia di guerra e la fine del sogno democratico

Non è un caso che, mentre i governi spendono miliardi in armamenti, i salari reali scendano e il costo della vita aumenti. Le classi popolari sono sempre più povere, mentre chi ha accesso ai circuiti del potere economico si arricchisce.

La verità è che la politica non ha più un progetto per il futuro. Non intercetta i bisogni reali, non propone un’idea di società, non costruisce un sogno. Berlusconi, piaccia o no, vendeva il mito del benessere individuale; oggi, invece, non c’è alcuna narrazione, se non il mantenimento dello status quo. Le persone votano più per disperazione che per convinzione, più per protesta che per adesione a un programma.

Dalla politica dei popoli alla politica delle oligarchie

La politica non è più lotta tra destra e sinistra, ma tra chi ha potere e chi non ne ha. Tra chi può vivere bene in un mondo sempre più ineguale e chi lotta per sopravvivere. Il vero scontro è tra chi beneficia di questo sistema – le élite finanziarie, politiche e industriali – e chi lo subisce.

Mentre i governi annunciano piani di riarmo, milioni di persone si impoveriscono. E il vero paradosso è che tutto questo non è il frutto di un piano segreto, ma di una deriva visibile, accettata e normalizzata. Chi governa ha smesso di progettare il futuro. E chi subisce non sa più per cosa lottare.