Il 12 febbraio segna due eventi apparentemente distanti, ma accomunati da un filo invisibile: la fine di un impero e l’inizio di una battaglia culturale. Nel 1912, la Cina si congedava dal suo ultimo imperatore, Xuantong (Pu Yi), mettendo fine a una dinastia millenaria e aprendo le porte a un secolo di rivoluzioni. Dodici anni dopo, nel 1924, in Italia vedeva la luce L’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci come organo del Partito Comunista Italiano.

Cosa lega questi due avvenimenti? Entrambi rappresentano momenti di cesura nella storia, il punto di svolta tra un potere antico e la modernità, tra il dominio assoluto e la forza delle idee. La Cina, con la caduta della dinastia Qing, entrava in un vortice di guerre, divisioni e trasformazioni politiche che l’avrebbero portata, dopo un lungo travaglio, a diventare una repubblica socialista nel 1949. L’Italia, con L’Unità, assisteva alla nascita di un giornale che non sarebbe stato solo una voce politica, ma un simbolo della lotta per le classi lavoratrici, un faro per chi credeva nella giustizia sociale e nella rivoluzione culturale.

L’Unità: da organo di partito a testimone del cambiamento

Nato sotto l’egida di Gramsci, L’Unità è stato molto più di un quotidiano di partito. È stato il giornale della Resistenza, il testimone della ricostruzione del dopoguerra, il punto di riferimento della sinistra italiana negli anni delle grandi battaglie sindacali e civili. Per decenni ha raccontato le speranze e le delusioni del movimento operaio, dando voce a un’Italia che chiedeva giustizia sociale e diritti.

Ma la storia non è mai lineare. La fine del PCI, il crollo delle ideologie, la crisi del giornalismo cartaceo hanno trasformato radicalmente il panorama dell’informazione. L’Unità ha vissuto chiusure e riaperture, riflessioni identitarie e cambi di proprietà. Oggi il giornale è tornato nelle edicole, ma con un profilo molto diverso rispetto alle sue origini. Non è più l’organo ufficiale di un partito, ma un quotidiano che cerca di interpretare la sinistra contemporanea, in un panorama politico frammentato e in una società dove i riferimenti ideologici del Novecento sembrano sempre più sbiaditi.

Dalla monarchia alla Repubblica, dalla carta stampata al digitale: il tempo delle trasformazioni

Così come la Cina post-imperiale ha dovuto ridefinire se stessa tra guerre e rivoluzioni, anche L’Unità ha dovuto ripensarsi per sopravvivere. Oggi il mondo non è più quello della Rivoluzione Xinhai né quello del comunismo gramsciano. L’impero cinese è diventato una superpotenza socialista di mercato, mentre la sinistra italiana cerca ancora un’identità solida dopo la caduta del muro di Berlino.

Il 12 febbraio, dunque, ci ricorda che nulla è eterno: né gli imperi né le testate giornalistiche. Il vero nodo, oggi, è capire se il cambiamento è un’evoluzione o una perdita di significato. La Cina, pur essendo una repubblica, conserva tratti profondamente autoritari e gerarchici. L’Unità, pur essendo rinata, è ancora alla ricerca di un ruolo chiaro nel panorama mediatico.

Nel tramonto degli imperi e nella trasformazione delle parole, la storia ci insegna che nulla può restare immutato. Ma il valore di un’eredità si misura non solo con la sua durata, ma con la capacità di restare fedele alla sua missione originaria. Per L’Unità, questo significa ancora raccontare il mondo con uno sguardo critico, non piegarsi alle mode del momento, non perdere di vista la sua anima. Come per la Cina post-imperiale, la sfida è reinventarsi senza rinnegarsi.

unita e gramsci