A quattro anni dall’incidente, le famiglie delle vittime chiedono ancora giustizia. Ogni mese, il 4, si riuniscono al porto per commemorare i loro cari. La ricostruzione, finanziata da donazioni internazionali, non colma l’assenza di verità e giustizia. Il porto di Beirut opera al 10% della sua capacità prima dell’esplosione, con i silos semidistrutti che testimoniano la tragedia e la lotta per la giustizia.

Alle 17:55 di martedì 4 agosto 2020, un incendio nell’hangar 12 del porto di Beirut, contenente fuochi d’artificio, ha scatenato un inferno. I vigili del fuoco arrivano in pochi minuti, ma alle 18:07, due detonazioni li travolgono. Nessuno sopravvive. Il fuoco ha innescato quasi tre tonnellate di nitrato di ammonio, immagazzinate da sette anni. Una nube arancione si alza sinistramente sulla città.

L’energia liberata è paragonata a quella di mille tonnellate di tritolo, con la seconda esplosione avvertita fino a Cipro e Israele. Il cratere ha un raggio di 70 metri, e lo spostamento d’aria distrugge i vetri degli edifici in un raggio di tre chilometri. Il bilancio è devastante: 230 morti, oltre 700 feriti, 300.000 persone senza casa. Le vittime includono lavoratori del porto, personale delle navi, automobilisti, residenti e frequentatori di locali vicini.

Tra le vittime, il piccolo Isaac Oehlers, di due anni, colpito da un pezzo di vetro nella sua casa a 700 metri dal porto. Muoino cittadini libanesi e siriani, ma anche persone di decine di altre nazionalità.

L’inchiesta rivela che il nitrato di ammonio è arrivato a Beirut nel 2013 a bordo della nave Rhosus, bloccata per problemi tecnici. Le autorità portuali hanno segnalato più volte la pericolosità del carico, ma le comunicazioni sono rimaste inascoltate. Un documentario del 2021 ipotizza che il nitrato d’ammonio fosse destinato a esplosivi per la guerra civile siriana, ma mancano prove certe. Paradossalmente, gli unici arrestati sono stati sedici ufficiali del porto.

Il giudice Fadi Sawan accusa di negligenza criminale diversi ministri, ma questi invocano l’immunità parlamentare. Sawan viene rimosso, e anche il suo successore, Tarek Bitar, non riesce a portare avanti l’inchiesta a causa delle pressioni e delle violenze politiche.