Nel dibattito sulla tipizzazione autonoma del femminicidio e sull’inasprimento delle pene per chi uccide una donna, emergono due dimensioni fondamentali: da un lato, la necessità di un’azione decisa dello Stato per reprimere un fenomeno odioso, dall’altro, l’esigenza di preservare i principi di razionalità, proporzionalità e uguaglianza giuridicache fondano il diritto penale moderno. L’osmosi tra questi due aspetti—la tutela delle vittime e il rispetto dei principi fondamentali del diritto—non è solo un problema giuridico, ma una questione filosofica e politica, che chiama in causa il delicato rapporto tra legge, morale e politica criminale.

Il femminicidio: crimine di dominio e vulnerabilità sociale

Il femminicidio non è un omicidio qualsiasi: esso si radica in dinamiche culturali e sociali specifiche, che affondano le radici in rapporti di potere sbilanciati e in una persistente disparità di genere. L’uccisione di una donna per ragioni legate al suo genere, spesso nel contesto di una relazione affettiva abusante, riflette una logica di possesso, di sopraffazione e di negazione della libertà femminile.

Il dato sociologico conferma che la donna si trova, nella maggior parte dei casi, in una condizione di maggiore vulnerabilità rispetto all’uomo: dipendenza economica, isolamento sociale, coercizione psicologica sono elementi ricorrenti nei casi di femminicidio. Se si volesse ricorrere a un linguaggio di ispirazione hegeliana, si potrebbe dire che il femminicidio è l’esito ultimo della dialettica servo-padrone applicata ai rapporti di genere: laddove la donna rivendica autonomia, il soggetto oppressore—che non accetta la perdita del controllo—risponde con la violenza estrema.

Ma questa evidenza sociale non può condurre a un sovvertimento dei principi di giustizia penale. L’indignazione collettiva non deve tradursi in giustizialismo emotivo, né tantomeno può giustificare una disarticolazione dei principi di uguaglianza e proporzionalità della pena.

L’asimmetria normativa e il rischio di una giustizia selettiva

La scelta di tipizzare autonomamente il femminicidio e di introdurre un automatismo punitivo che prevede l’ergastolo in ogni caso di omicidio di una donna per ragioni di genere pone un problema giuridico fondamentale. Se il diritto deve essere neutro rispetto alle categorie sociali e ai gruppi di appartenenza, la creazione di una fattispecie penale specifica per il femminicidio rischia di generare una disparità giuridica che va in direzione opposta rispetto all’obiettivo dell’equiparazione di genere.

Infatti, la giustizia penale si fonda sull’universalità della norma: ogni omicidio è un atto riprovevole, ogni vita umana ha lo stesso valore. Inserire un’aggravante esclusiva per il genere della vittima significa introdurre un trattamento differenziato che potrebbe, paradossalmente, rafforzare l’idea di una differenza giuridica tra uomini e donne, anziché colmare il divario.

Questa impostazione normativa si scontra con il principio di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.) e con la personalizzazione della responsabilità penale, pilastro del giusto processo sancito dall’art. 111 della Costituzione. La giurisprudenza costituzionale ha più volte ribadito che non può esistere una pena automatica, che non tenga conto delle circostanze del caso concreto (Corte Cost., sent. n. 50/1980).

Inoltre, il diritto penale non deve essere un diritto simbolico, ma un sistema di regolazione razionale dei conflitti sociali. Il rischio, in questo caso, è quello di cadere in un populismo penale, in cui la legge diventa uno strumento di affermazione di un’ideologia, piuttosto che un mezzo di giustizia.

L’osmosi tra repressione e prevenzione: una strategia integrata

Se il diritto non può piegarsi all’emotività sociale, ciò non significa che lo Stato debba ridurre il proprio impegno nel contrasto al femminicidio. La risposta giuridica deve essere severa ma razionale, e soprattutto integrata con misure di prevenzione e protezione.

Piuttosto che insistere esclusivamente sull’inasprimento delle pene, sarebbe più efficace:

• Potenziare i centri antiviolenza, garantendo alle donne vie di fuga concrete dalle situazioni di pericolo.

• Rafforzare le misure di allontanamento dei soggetti violenti, rendendo più incisivo l’uso dei braccialetti elettronici.

• Promuovere l’educazione alla parità e alla gestione non violenta dei conflitti nelle scuole, per spezzare il ciclo della violenza già nelle nuove generazioni.

• Migliorare l’intervento precoce della magistratura e delle forze dell’ordine, evitando che segnalazioni di stalking o minacce vengano sottovalutate.

In questo senso, l’osmosi tra diritto e prevenzione sociale può garantire una strategia più efficace contro il fenomeno del femminicidio. Non basta punire il reato: bisogna prevenire la sua genesi.

Giustizia e razionalità, non simbolismo punitivo

Il femminicidio è un crimine aberrante, che richiede una risposta decisa. Tuttavia, il diritto penale non può essere uno strumento di propaganda sociale o di affermazione ideologica. La sua funzione è garantire giustizia equa e proporzionata, non agire sotto la spinta dell’emozione collettiva.

Se davvero si vuole arrivare all’equiparazione di genere entro il 2030, bisogna evitare di costruire asimmetrie normative che minano il principio di uguaglianza giuridica. Il diritto deve essere severo con i colpevoli, ma sempre rispettoso dei principi della Costituzione e della giustizia sostanziale.

Solo attraverso una strategia equilibrata, che unisca repressione, prevenzione e protezione, si potrà contrastare davvero il femminicidio, senza alterare il senso autentico del diritto. Perché la vera giustizia non ha bisogno di leggi simboliche, ma di norme giuste, efficaci e razionali.