Ogni anno a Roma, come nelle grandi città, si svolge il gay pride. È una manifestazione che lascia perplessi sul significato e sulla modalità. L’ostentazione chiassosa della propria sessualità sul piano culturale e sociologico non produce automaticamente quella normalizzazione che la comunità LGBTQAI+ auspicherebbe.
Il 10 giugno 2023 si è svolto a Roma il gay pride.
Il percorso della sfilata ha costeggiato la Basilica papale di S. Maria Maggiore che ospitava in concomitanza le reliquie di S. Teresa di Lisieux e dei suoi genitori Luis e Zélie Martin.
Ha sorpreso la presenza significativa di fedeli che hanno voluto riconoscere l’esempio della giovane carmelitana e dei suoi genitori nella vita di tutti i giorni.
Ha altrettanto sorpreso la presenza relativamente esigua dei manifestanti arcobaleno malgrado la grancassa mediatica e lo schiamazzo in strada con l’ausilio di potenti altoparlanti su un camion scoperto.
Gli organizzatori hanno detto: “Mai così tanti…”.
Chi era presente, insieme ai dati della Questura, è di ben altro avviso.
È per questa ragione che i diversamente sessuali – usiamo questa espressione per semplificare – vanno rispettati, riconosciuti come persone, valorizzati come individui e accolti all’interno della famiglia della Chiesa come qualunque altro fedele.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci parla di rispetto, compassione e sensibilità (CCC 2358).
Recenti coming out, per quanto non sempre condivisibili come approccio e inchieste giornalistiche affidabili, rivelano anche all’interno del clero la presenza di omosessuali che, specie nel passato, era diventata una lobby di potere.
I sacerdoti coraggiosi (ed eterosessuali) che hanno cercato di lanciare un ponte verso i gay, chierici o no, sono stati subito lapidati dagli arcisinagoghi di turno, forse infastiditi da un cambio di paradigma più consono alle esigenze di testimonianza della Chiesa.
È il caso di James Martin negli USA. Non a caso, infatti, Papa Francesco lo ha voluto premiare per la verità e bontà dei suoi scritti.
Gli atteggiamenti di derisione e di condanna dei gay, ad esempio, derivano da una reazione all’ambiguità, più che a derisione gratuita.
Dietro ogni diversamente sessuale c’è una storia esistenziale particolare, farcita spesso da ferite ricevute sin dalla tenera infanzia.
Nell’attività pastorale ordinaria, capita di dover accompagnare persone con problemi di identità sessuale che vivono la loro condizione come un vero e proprio dramma.
Nel caso del transessualismo, ad esempio, sono evidenti il più delle volte, disturbi psichiatrici che diventano l’ossessione di non accettarsi per quello che si è.
L’epilogo molte volte è drammatico perché la dinamica autodistruttiva, che si manifesta anche nel cambio morfologico del sesso, porta fino al suicidio.
Non per discriminazione, ma per capacità di oggettivazione, la Chiesa esige ormai per i suoi candidati al sacerdozio l’eterosessualità e un provato equilibrio affettivo.
Quando possibile, esperienze di lavoro e di fidanzamento pregresso, nell’ambito di una famiglia sana, sono poi il valore aggiunto per l’esercizio di un ministero empatico e produttivo sul piano pastorale.
Lungi dal determinarsi durante la post pubertà, l’identità sessuale si forma sin dall’infanzia.
La frammentazione della famiglia, l’assenza del padre, la sfiducia verso un modello parentale convenzionale è devastante nello sviluppo umano integrale di un preadolescente.
Oggi, anche all’interno degli uomini eterosessuali c’è una certa perdita della mascolinità e della virilità con uso di cerette e cosmetici che un tempo appartenevano a dei consumatori solo donna.
Si capisce bene, allora, che la scoperta del target omosessuale quale nicchia di mercato e l’aumento del potere d’acquisto non solo dei gay maschi ma di tutta la comunità LGBTQAI+, ha determinato la loro inclusione all’interno delle pubblicità e degli spot.
Per cercare di evitare l’utilizzo di determinati cliché e stereotipi le aziende hanno dovuto realizzare una strategia differente da quella attuata in precedenza: non ridicolizzarlo, ma normalizzarlo.
L’alta presenza nella rappresentazione pubblicitaria di omosessuali maschi ci permette di capire che il target predefinito del mercato continua ad essere quello maschile e gay.
La comunità lesbica non viene considerata una classe economicamente forte, né facilmente accessibile per un radicato atteggiamento anticapitalista e femminista.
Le lesbiche, quando vengono rappresentate, ricalcano il modello di donna cisgender eterosessuale.
Non vengono rappresentate mascoline o in ruoli di genere non normativi, ma invece attraverso il modello oggettificato e sessualizzato di una donna che deve piacere ad un pubblico maschile, ricalcando a volte ideali della pornografia eterosessuale.
Le minoranze bisessuali e transessuali trovano pochissimo spazio all’interno della comunicazione pubblicitaria e vengono solitamente rappresentate con due metodologie principali: persone ipersessuali o drag queen.
La rappresentazione normata della comunità LGBTQAI+, infine, non si discosta da una rappresentazione stereotipata e binaria del maschile-femminile e uomo-donna e tende a rendere i gay e le lesbiche “normali”: come tutti anche loro lavorano, pagano le tasse, si sposano, desiderano una famiglia.
Adottare un bambino, quindi, visto che non lo si può avere naturalmente, è un modo per affettare normalità.
È quindi il consumo, uno dei modi attraverso cui gli omosessuali riescono ad inserirsi all’interno della società ricevendo legittimità politica e identitaria da parte della popolazione, delle industrie, della nazione.
In una società politicamente polarizzata, anche il voto delle minoranze, qualunque esse siano, può fare la differenza per il successo elettorale.
L’arroganza, tuttavia, non è solo da parte degli eterosessuali.
All’esortazione apostolica Amoris Laetitia, Papa Francesco dice: “Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita” (n. 250).
Tanto è bastato per provocare una reazione furibonda contro il Papa da parte della comunità arcobaleno degli USA.
Essa si aspettava, evidentemente, un riconoscimento, una sorta di omologazione con sigillo pontificio.
Qui sembra che ci sia allora una confusione tra i diritti naturali e le legittimazioni di minoranze all’interno di uno Stato di diritto.
Nell’antica Grecia si praticava la sodomia, chiamata “vizio greco”.
Sembra che anche gli antichi romani la ereditarono come forma di perverso potere da esercitare verso i giovinetti.
Secondo alcuni storici, come depravazione dei costumi, fu addirittura una delle concause della dissoluzione dell’Impero.
Mai in quelle società classiche, si è tuttavia pensato di riconoscere il cosiddetto matrimonio gay.
Esisteva infatti una concezione funzionale del matrimonio e della famiglia rispetto alla società civile e il suo contratto non poteva che essere tra un uomo e una donna.
La Chiesa, come famiglia di Dio per gli uomini, perpetua la sua missione nello spazio e nel tempo con gli stessi atteggiamenti di Cristo.
Gesù andava incontro alle persone così come erano e dove le trovava.
Gesù proclama la sua identità, interpreta il suo ruolo sociale da uomo.
Istruisce progressivamente gli apostoli e li sceglie tra persone già con una famiglia.
Li istruisce e li incoraggia, come per i due discepoli sulla via di Emmaus.
L’ondata di suicidi tra i giovani LGBTQAI+ non può non scuotere il cuore cristiano o, a dire il vero, ogni cuore capace di compassione.
Qualsiasi suicidio è una terribile tragedia, ma il suicidio di un giovane convinto che la sua vita non cambierà mai e spinto alla disperazione dall’essere bersaglio di atti di bullismo e molestie, è particolarmente straziante.
Molte persone gay e lesbiche, giovani e anziane, dichiarano di essersi sentite profondamente ferite dalla loro Chiesa e altri organismi religiosi.
Dalle chiese ci si attende che trovino un modo per andare incontro con maggiore compassione ai giovani diversamente sessuali, aiutarli a sentirsi benvoluti e amati da Dio – e da noi.
L’esempio allora di S. Teresina e della sua famiglia è un incoraggiante aiuto a vivere, non la normalizzazione forzata di nuovi modelli di vita famigliare, allargato o arcobaleno che sia, ma a recuperare la normalità della famiglia naturale.
Oggi è questa la vera rivoluzione che non ha bisogno di ostentazione, ma di quell’amore di cui S. Teresa di Lisieux, educata dai suoi santi genitori, ne fece la sua vocazione nel cuore della Chiesa.