È difficile scrivere di Gaza senza sentirsi sopraffatti da un senso di impotenza. Ancora più difficile è comprendere come, nel 2025, la comunità internazionale – e in particolare l’opinione pubblica statunitense – possa continuare a tollerare ciò che ormai è sotto gli occhi di tutti: una catastrofe umanitaria deliberata, sistemica, pianificata. Una guerra senza limiti, come l’ha definita Jonathan Whittall delle Nazioni Unite, in cui la decenza e la legge sembrano essere diventate un lontano ricordo.

Dal 1° marzo, Israele ha interrotto ogni flusso di aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza, in un contesto già devastato da oltre 17 mesi di bombardamenti, assedi, carestia. Non entra più nulla: né acqua, né cibo, né medicinali, né farina per le ultime panetterie sostenute dal World Food Program, oggi tutte chiuse. “Niente sta entrando a Gaza”, ha detto Anton Asfar di Caritas Gerusalemme. E quel “niente” non è solo assenza di beni, ma presenza concreta della morte.

Questa non è più guerra. È strangolamento.

Lo scenario è apocalittico: più di 50.000 palestinesi uccisi, secondo le autorità di Gaza; bombardamenti quotidiani che colpiscono scuole, ospedali, chiese, rifugi. Bambini bruciati vivi, giornalisti uccisi nelle tende dove dormivano, medici impossibilitati a lavorare. Le squadre umanitarie, come denuncia la Caritas, non hanno più margini di movimento: perfino i sistemi di notifica alle IDF sono ignorati. Anche in Cisgiordania la situazione è drammatica: 200.000 lavoratori palestinesi senza permesso, 40.000 sfollati, attacchi di coloni fuori controllo.

Eppure, nonostante tutto, nei salotti televisivi occidentali si continua a parlare della necessità di “sconfiggere Hamas”, ignorando che ciò che si sta distruggendo, nella pratica, è un intero popolo. Non è Hamas a morire di fame: sono bambini, donne, anziani. Non è Hamas a fuggire sotto le bombe: sono famiglie intere che vagano senza sapere dove andare, in un lembo di terra dove “non c’è una zona sicura”, come ha detto Asfar.

Il sostegno statunitense a Israele ha subito una mutazione inquietante: dall’ambigua cautela dell’amministrazione Biden si è passati alla piena legittimazione dell’“Operazione Forza e Spada” grazie al rinnovato asse Netanyahu-Trump. Il premier israeliano ha ritrovato le mani libere, “scatenato” da ogni vincolo umanitario. L’idea stessa – emersa nei colloqui con Trump – di “trasferire” la popolazione di Gaza è un’ipotesi di pulizia etnica in piena regola. Eppure, nessuna delle grandi democrazie sembra battere ciglio.

I leader cristiani della Terra Santa hanno lanciato un grido d’allarme disperato, citando la parabola del buon samaritano e rifiutando di voltarsi dall’altra parte. “Siete stati fuorviati”, scrivono ai cristiani americani: Dio non chiede l’annessione, né l’espulsione dei popoli. “I palestinesi sono il vostro prossimo”. È una verità semplice, ma spesso censurata, ignorata, deformata in una narrazione biblico-politica tossica che giustifica l’ingiustificabile.

Gaza è diventata il simbolo vivente del fallimento morale del nostro tempo.

Ogni giorno senza un cessate il fuoco costa centinaia di vite innocenti. Ogni silenzio, ogni ambiguità, ogni rimando diplomatico è complice della violenza. Non si tratta di scegliere tra Israele e Palestina, ma tra umanità e barbarie. Le bombe possono forse distruggere Hamas, ma non potranno mai costruire la pace. La pace nasce dalla giustizia, dall’uguaglianza, dal riconoscimento reciproco.

Se davvero crediamo in un ordine internazionale fondato sul diritto, la prima urgenza è spezzare l’assedio. Aprire i corridoi umanitari. Fermare i bombardamenti. Proteggere i civili. E poi, finalmente, ascoltare quelle voci di speranza – cristiane, ebraiche, musulmane – che da Gerusalemme a Betlemme, da Khan Younis a Ramallah, continuano a credere che un altro futuro sia possibile.

Perché se non fermiamo questa guerra adesso, sarà la nostra coscienza collettiva a crollare sotto le macerie di Gaza. E questa, davvero, sarà una sconfitta senza ritorno.