Nel contesto dei recenti conflitti che Israele sta conducendo contro Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano, l’atteggiamento degli Stati Uniti appare quanto mai ambiguo. Washington, se da un lato afferma di non essere direttamente coinvolta nelle operazioni militari di Tel Aviv, dall’altro continua a fornire massicce quantità di armi e sostegno logistico. Questa dinamica, che emerge chiaramente dal flusso continuo di forniture militari e assistenza finanziaria a Israele, solleva un interrogativo inevitabile: fino a che punto gli Stati Uniti possono realmente sostenere di non essere parte del conflitto?

Il ruolo degli Stati Uniti come “fornitore strategico”

La realtà è che gli Stati Uniti sono, e continuano ad essere, il principale fornitore di armamenti per Israele. Negli ultimi quindici anni, il Pentagono e le compagnie di difesa americane hanno trasferito oltre 29.100 tra bombe guidate, missili e proiettili di artiglieria a Israele, con oltre un terzo di queste forniture consegnato solo negli ultimi due anni. L’intensificarsi del conflitto ha visto una nuova ondata di invii, con l’amministrazione Biden che ha recentemente autorizzato l’invio di 3.000 bombe e decine di migliaia di colpi di artiglieria immediatamente dopo l’inizio della guerra con Hamas a ottobre .

Questi numeri, pur imponenti, non riflettono ancora la totalità del sostegno americano. Israele continua a beneficiare di un “approvvigionamento essenziale in tempo di guerra” per un valore di 3,5 miliardi di dollari, una cifra che comprende non solo munizioni, ma anche rifornimenti logistici e supporto tecnico indispensabile per mantenere attive le sue difese aeree e le operazioni offensive.

La retorica del “non coinvolgimento”

Nonostante tutto questo, il governo degli Stati Uniti si dichiara esterno al conflitto, affermando di non aver avuto alcun ruolo diretto negli attacchi israeliani e, soprattutto, di non aver fornito informazioni di intelligence che avrebbero potuto influenzare le operazioni. Questa presa di posizione, che intende mantenere Washington in un’apparente neutralità, suona sempre più ipocrita alla luce del continuo rifornimento di armi.

Gli Stati Uniti, infatti, sono stati determinanti nello sviluppo e nella manutenzione del sistema Iron Dome, il sistema difensivo che Israele usa per intercettare razzi e missili, e che è stato fondamentale nelle ultime settimane per respingere gli attacchi di Hezbollah e Hamas. Senza il costante supporto tecnologico e logistico americano, sarebbe estremamente difficile per Israele sostenere un conflitto su due fronti con un nemico ben armato e radicato.

La politica del doppio standard: armi e diplomazia

La posizione statunitense si muove dunque su un doppio binario: da un lato, Washington fornisce armi e supporto a Israele; dall’altro, si presenta come mediatrice nei processi diplomatici per promuovere un cessate il fuoco o una de-escalation. Questa strategia è tanto complessa quanto discutibile. È difficile conciliare l’immagine di una potenza pacificatrice con quella di un paese che arma pesantemente una delle parti in conflitto.

L’apparente tentativo di smarcarsi dalle operazioni di Israele non regge alla prova dei fatti, soprattutto alla luce del supporto continuo e delle forniture che non si sono fermate neanche nei momenti di maggiore tensione. Come evidenziato da diversi analisti, gli Stati Uniti stanno fornendo a Israele una quantità di armi tale da permetterle di sostenere un conflitto prolungato e ad alta intensità. Di fatto, questo rende Washington una parte del conflitto, anche se indirettamente.

Ipocrisia strategica: difesa e business

C’è poi un altro aspetto cruciale da considerare: il ruolo dell’industria della difesa americana. Le vendite di armi a Israele non sono solo una questione di alleanza strategica, ma anche di business. Le compagnie d’armi americane beneficiano enormemente di questi contratti e sono parte integrante di un sistema che alimenta il ciclo di guerra. In questo senso, l’ipocrisia non è solo politica, ma anche economica. Gli Stati Uniti non possono realmente distaccarsi dal conflitto quando il loro stesso sistema industriale e di sicurezza è legato a doppio filo alle operazioni israeliane.

Le recenti dichiarazioni del portavoce del Pentagono, che ha negato qualsiasi coinvolgimento degli Stati Uniti nell’attacco contro Hezbollah a Beirut, non fanno che rafforzare questa percezione. Di fronte a un conflitto che si intensifica, il rifiuto di riconoscere il proprio ruolo attivo non fa che minare ulteriormente la credibilità americana come mediatore imparziale.

Una presa di posizione necessaria

Gli Stati Uniti devono quindi fare i conti con la propria ipocrisia. Se vogliono davvero essere percepiti come attori responsabili e neutrali, devono rivedere la loro politica di fornitura di armi e supporto militare a Israele. Continuare a inviare munizioni e attrezzature militari, mentre si esprimono preoccupazioni per le vittime civili, è un atteggiamento che rischia di far perdere credibilità a qualsiasi tentativo di mediazione.

In un momento in cui la situazione rischia di sfuggire di mano e di coinvolgere ulteriori attori regionali, è essenziale che Washington chiarisca la propria posizione. Se gli Stati Uniti vogliono veramente essere parte della soluzione, devono riconoscere il loro ruolo attuale e decidere se continuare a essere semplicemente il “grande arsenale” di Israele o se adottare una politica più coerente con le dichiarazioni di pace e stabilità che propongono al mondo intero.