Il blitz del governo sul decreto sicurezza, approvato in tutta fretta e trasformato in decreto-legge bypassando il confronto parlamentare, non è solo un’operazione legislativa: è un atto politico che riapre un vecchio conflitto, quello tra politica e magistratura. Un copione già visto, ma che assume oggi tratti nuovi e forse ancora più pericolosi.

Il provvedimento, che giaceva da mesi in Parlamento nella forma di un disegno di legge sordo a ogni proposta delle opposizioni, è stato calato come un siluro normativo sul terreno già scivoloso del diritto penale d’autore e dell’emergenza permanente. La retorica della sicurezza, impugnata come clava, diventa così strumento per ridefinire gli equilibri tra poteri dello Stato, tra libertà e ordine, tra giustizia e governo.

Proprio per questo, il Comitato Direttivo Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, riunitosi in Cassazione, pur non avendo all’ordine del giorno il decreto, non ha potuto evitare il confronto. Le parole emerse nel dibattito interno sono rivelatrici di un malessere profondo: c’è inquietudine, si è detto, per un testo normativo che non solo irrigidisce il diritto penale, ma sembra perseguire un duplice obiettivo: zittire il dissenso e intimidire la magistratura.

A ben vedere, però, potrebbe esserci un terzo bersaglio implicito del decreto: gli stessi elettori del centrodestra, sempre più delusi. Il governo, accerchiato da crisi economiche, malcontento sociale e mancate promesse, sembra voler rinsaldare la propria base attraverso un messaggio muscolare, offrendo l’immagine di un potere saldo, inflessibile, capace di agire “senza compromessi”. La sicurezza, in questo senso, non diventa solo una risposta agli avversari, ma anche una cortina protettiva contro il malcontento interno, un modo per contenere e deviare l’attenzione da promesse disattese su fisco, lavoro, pensioni, autonomie.

Non si tratta di un conflitto ideologico tra potere politico e giudiziario. Il punto è che la politica, rinunciando al confronto nelle aule parlamentari, ha scelto la via muscolare del decreto, che ha implicazioni dirette non solo sui diritti dei cittadini, ma anche sulla funzione di controllo e bilanciamento che la magistratura esercita in uno stato costituzionale.

E infatti, tra le toghe, il timore è che ci si trovi davanti all’ennesima stagione di attacco alla giurisdizione, mascherato da riforma dell’ordine pubblico. La sicurezza, nel lessico del potere, diventa pretesto per indebolire le garanzie, comprimere i diritti, marginalizzare i controllori del potere stesso. Una stagione che si conosce bene, ma che oggi rischia di cristallizzarsi in prassi istituzionali normalizzate, accettate come inevitabili in nome dell’efficienza.

Non a caso, anche all’interno dell’ANM si avvertono tensioni. C’è chi chiede una presa di posizione chiara, una denuncia pubblica dell’invasione del campo costituzionale, e chi teme che un’eccessiva esposizione possa alimentare ulteriori accuse di politicizzazione della magistratura. Ma proprio qui sta il cuore della questione: rivendicare la funzione costituzionale della magistratura non è fare politica, è difendere la legalità repubblicana.

Il punto non è l’appartenenza ideologica, ma il metodo. Quando si evita il confronto parlamentare, si aggira il principio di legalità per decreto e si riscrivono le regole del dissenso – criminalizzandolo – allora non si tratta più di “fare ordine”, ma di ridisegnare il rapporto tra Stato e cittadini. Ed è comprensibile che i magistrati vedano in questo scenario non solo un rischio giuridico, ma un segnale politico inquietante.

Serve una riflessione pubblica ampia, non una difesa di categoria. Perché in gioco non c’è solo l’autonomia della magistratura, ma la qualità stessa della nostra democrazia. Ed è proprio nei momenti in cui la sicurezza diventa parola d’ordine, che bisogna domandarsi di chi è la sicurezza, e da cosa realmente ci sta proteggendo.