La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è nuovamente sull’orlo del collasso. La crisi che da decenni insanguina l’est del Paese si è aggravata con l’avanzata delle milizie dell’M23, un gruppo ribelle sostenuto dal Ruanda, che ha ormai assunto il controllo di Goma e marcia verso Bukavu. La ministra degli Esteri congolese, Thérèse Kayikwamba Wagner, ha denunciato senza mezzi termini la responsabilità di Kigali: “Il Ruanda sta occupando illegalmente il nostro Paese e mira a un colpo di Stato”. E il mondo lo lascia fare.
Non è una dichiarazione isolata. Da tempo il governo di Kinshasa accusa il Ruanda di fomentare l’instabilità nell’area, sfruttando le milizie locali come proxy per un’occupazione de facto delle regioni orientali del Congo. Questa guerra, tuttavia, non riguarda solo le dinamiche regionali: dietro il conflitto si cela una battaglia geopolitica ed economica di vasta portata, con interessi internazionali legati alle immense risorse minerarie della RDC e ai giochi di potere tra potenze globali.
Ruanda: da vittima del genocidio a potenza regionale aggressiva
Dal genocidio del 1994, il Ruanda ha goduto di uno status privilegiato sulla scena internazionale. Paul Kagame, leader del Fronte Patriottico Ruandese e presidente dal 2000, ha saputo trasformare il piccolo Stato in una potenza regionale sostenuta dall’Occidente. Grazie alla retorica della stabilizzazione post-genocidio e a un’efficiente macchina diplomatica, Kigali ha ottenuto il favore di Stati Uniti ed Europa, diventando un attore chiave nel continente africano.
Ma dietro questa facciata di sviluppo e stabilità, il Ruanda ha condotto una politica espansionistica nell’est del Congo. La regione del Kivu, ricca di minerali strategici come coltan, oro e terre rare, è una fonte di ricchezza essenziale per Kigali. Il sostegno ruandese alle milizie dell’M23 e ad altri gruppi armati non è casuale: serve a mantenere un controllo indiretto su queste risorse, evitando un confronto militare diretto con Kinshasa e sfruttando il caos per consolidare la propria influenza.
La guerra dei minerali: una partita economica globale
Il vero cuore del conflitto non è solo politico o etnico, ma economico. La RDC è il più grande deposito mondiale di coltan, fondamentale per la produzione di componenti elettronici. Il controllo su queste risorse non riguarda solo Kinshasa e Kigali, ma coinvolge anche attori internazionali.
Da una parte, la Cina ha stretto accordi di sfruttamento ventennali con la RDC, garantendosi un accesso privilegiato ai minerali necessari alla sua industria tecnologica. Dall’altra, gli Stati Uniti e l’Europa non vogliono perdere la presa sulla regione e vedono nel Ruanda un alleato strategico. Il risultato è un doppio standard evidente: mentre la comunità internazionale condanna ufficialmente la violenza, nei fatti continua a chiudere un occhio sulle manovre di Kagame, garantendogli un sostegno che permette a Kigali di restare una potenza militare attiva.
Nel frattempo, il Congo è ridotto a una zona di guerra permanente, in cui le popolazioni locali pagano il prezzo più alto.
Goma e Bukavu: la città fantasma e il rischio di una guerra regionale
La caduta di Goma in mano ai ribelli dell’M23 è stata una sconfitta umiliante per il governo di Felix Tshisekedi. Ora il conflitto si avvicina a Bukavu, un centro strategico con oltre un milione di abitanti. Se anche questa città dovesse cadere, il Ruanda avrebbe di fatto un corridoio aperto per esercitare il controllo su gran parte del Kivu.
Il rischio di una regionalizzazione del conflitto è più concreto che mai. Il Burundi ha già schierato truppe nell’area e le unità ugandesi hanno assunto una “posizione difensiva avanzata”. L’intervento di forze della Comunità per lo sviluppo dell’Africa meridionale (SADC), con 2.900 soldati da Sudafrica, Tanzania e Malawi, ha reso la situazione ancora più tesa: Kigali li considera “forza belligerante”, aumentando la possibilità di uno scontro aperto.
Nel frattempo, il conflitto ha prodotto una catastrofe umanitaria senza precedenti:
• Esecuzioni sommarie: secondo l’ONU, almeno 12 civili giustiziati dall’M23 tra il 26 e il 28 gennaio.
• Stupri di massa: 165 donne violentate dopo l’evasione di 4.000 detenuti dalla prigione di Goma.
• Sfollati senza risorse: migliaia di civili costretti a lasciare i campi, mentre ospedali e scuole vengono occupati dai ribelli.
• Carestia e malattie: la mancanza di acqua ed elettricità sta causando un disastro sanitario. Gli obitori sono pieni, i cadaveri si accumulano nelle strade e il caldo accelera il rischio di epidemie.
A rendere ancora più drammatica la situazione è il comportamento delle milizie filogovernative Wazalendo, che dovrebbero difendere la popolazione ma che, di fatto, stanno seminando il terrore tra i civili. Queste bande, prive di disciplina e controllo, saccheggiano le case in cerca di cibo, minacciano i bambini e abusano delle donne. L’assenza di un esercito congolese strutturato e l’incapacità del governo centrale di controllare il territorio alimentano il caos.
E il mondo sta a guardare
Il quadro è chiaro: il Ruanda sta portando avanti un’occupazione mascherata della RDC, e la comunità internazionale sta permettendo che accada. L’Unione Africana resta inerte, l’ONU lancia allarmi ma non agisce, e le grandi potenze mantengono un imbarazzante silenzio.
Il Congo è in guerra da trent’anni, con oltre sei milioni di morti, eppure il conflitto rimane ai margini dell’attenzione globale. Perché? Perché la destabilizzazione del paese fa comodo a molti. Un Congo stabile e sovrano potrebbe gestire autonomamente le proprie risorse, sottraendole agli interessi di Ruanda, Cina, Stati Uniti ed Europa.
La domanda da porsi è semplice: quanto ancora il mondo sarà disposto a tollerare il saccheggio del Congo? Quanti altri massacri, stupri e sfollati serviranno prima che la comunità internazionale imponga sanzioni reali al Ruanda e smetta di considerarlo un partner affidabile?
Se il conflitto si espanderà ulteriormente e se il governo di Tshisekedi crollerà sotto i colpi dell’M23, il Kivu diventerà ufficialmente una colonia ruandese. E l’Africa sarà testimone dell’ennesima tragedia scritta nel sangue di un popolo dimenticato.