Dopo quarant’anni, la scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di un impiegato del Vaticano, rappresenta ancora un caso irrisolto.
Il fratello Pietro, che la sera del fatidico 22 giugno 1983 rifiutò di accompagnarla, si strugge dal rimorso.
Da allora, infatti, la ragazza non fece più ritorno a casa.
È Pietro Orlando che ora sta smuovendo i sentimenti dell’opinione pubblica, ottenendo la riapertura inaspettata di un’inchiesta congiunta tra lo Stato Vaticano e lo Stato Italiano.
Ai promotori di giustizia e ai pubblici ministeri italiani spetterà spiegare i fatti e risalire ai responsabili dei misfatti con robuste prove.
Ai deputati e senatori spetterà inquadrare il contesto politico, criminale e spionistico nel quale Emanuela sparì.
Al suo caso è stata associata anche la scomparsa di Mirella Gregori, una ragazza romana anch’essa quindicenne, che svanì nel nulla solo qualche mese prima.
Non c’è un movente definitivo per la loro scomparsa, non c’è un cadavere, non c’è un’arma del delitto.
In molti si chiedono se si tratta di un’unica economia e regia criminale oppure di due fatti separati.
I quell’epoca c’era purtroppo a Roma la cosiddetta “tratta delle bianche” nella quale molte ragazze cadevano nella rete di predatori o schiavisti sessuali.
Si è persino parlato di pedofilia clericale buttando fango sullo stesso Giovanni Paolo II.
Un indecente espediente per indurre il Vaticano a fare luce sul cold case che lo coinvolge, poiché Emanuela Orlandi era una dei pochi cittadini della città stato.
La Magistratura italiana seguì due piste archiviate nel 1997 e nel 2015.
La prima riguardava la richiesta di liberazione di Ali Mehemet Agca, l’attentatore turco di Giovanni Paolo II.
Giovanni Paolo II, cresciuto nel Blocco sovietico, si era fatto alleato degli USA di Ronald Regan nella lotta al comunismo.
Agca in carcere rappresentava un testimone scomodo e andava assolutamente esfiltrato.
Si doveva trovare il modo di ricattare il Vaticano, rasserenare la gola profonda di Agca in cambio di una promessa di libertà.
Come se «già sapesse il fatto suo», terrorista turco non fece ricorso in appello all’ergastolo inflittogli.
Agca, tuttavia, sarà scarcerato nell’amnistia del Giubileo del Duemila con Giovanni Paolo II ancora pontefice regnante.
Il mistero dei mandanti, dei complici e delle persone scomparse non sono stati ancora risolti.
Le due organizzazioni criminali iniettarono e persero denaro nel dissesto finanziario del Banco Ambrosiano, il cui principale azionista era lo IOR.
Proprio negli Anni Ottanta, le casse dello IOR si stavano dissanguando per finanziare la dissidenza anticomunista del partito polacco Solidarnosc.
All’epoca, in quella singolare banca vaticana, transitava anche “denaro sporco”.
Erano i tempi dell’alleanza trono-altare giustificata dal contenimento dell’«Impero del Male sovietico» che rappresentava una minaccia allo Stato liberale e democratico, nonché alla libertà religiosa.
Erano i tempi della spregiudicatezza di alcuni prelati come Mons. Paul Marcinkus sospettato di combelligeranza antisovietica con la CIA.
Il nome del monsignore lituano aleggia nel sequestro Moro, nella morte di Papa Luciani, nel crack… del Banco Ambrosiano.
Gli interessi in gioco erano elevatissimi.
La grazia della scarcerazione di Agca poteva darla invece solo l’allora presidente della Repubblica italiana Sandro Pertini.
Una ricostruzione plausibile è che il rapimento precedente di Mirella Gregori, cittadina italiana, poteva strumentalmente servire alla causa.
Si tratta di ipotesi, ma il coinvolgimento dei servizi segreti italiani e stranieri è un dato di fatto.
All’ inizio del 1981 i francesi dello Sdece avevano invano messo in guardia sull’attentato al Papa.
Un anno dopo mettono in guardia la Santa Sede, tramite l’abate dei padri premostratensi, sul possibile sequestro di cittadini vaticani.
La famiglia Orlandi ricevette la vista di agenti italiani dell’intelligence subito dopo il sequestro.
Essi imposero come avvocato un uomo sulla busta paga del Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica).
Giovanni Paolo II all’Angelus fece otto appelli per la liberazione di Emanuela a partire dal mese di luglio 1983 e nel Natale dello stesso anno spiegò alla famiglia che il loro era un caso di “terrorismo internazionale”.
Da thriller degno della fantasia di Dan Brown, dopo il sequestro si moltiplicavano i messaggi in codice a mezzo stampa, gli indizi, i depistaggi, le gole profonde…
Il fotografo Marco Accetti, colui che fece ritrovare un flauto simile a quello usato da Emanuela Orlandi, si autodenunciò come esecutore materiale del sequestro.
Secondo Pietro Orlandi, è riconducibile a lui la voce del “negoziatore”, con affettato accento americano, rivolte alla famiglia di Emanuela.
È in corso però un processo per autocalunnia poiché il suo racconto non è stato ritenuto credibile dalla Magistratura. Il suo passato, infatti, non è molto limpido e lineare.
Con il beneficio di inventario va presa anche la successiva testimonianza, solo del 2008, di Sabrina Minardi, l’amante di Renato De Pedis, il boss della banda della Magliana.
Alcune testimonianze e filoni d’inchiesta attribuirebbero proprio a questa organizzazione criminale romana l’esecuzione del sequestro.
Su richiesta di “Renatino” la Minardi afferma di aver nascosto in una sua casa di Torrevajanica Emanuela Orlandi.
La giovane era rinchiusa in una stanza e accudita da una seconda complice.
Per anni la donna del boss è stata dipendente da droghe tanto che fino ad oggi, dal suo modo di esprimersi, sembra che rimanga alterata la sua percezione della realtà e la conseguenza le ricostruzione dei fatti.
Dalla nostra analisi l’intrigo sembra acquisire una doppia motivazione: geopolitica ed economica.
Se un caso così complesso e delicato non finirà “in caciara”, così come si teme per la pur comprensibile agitazione del fratello Pietro, è possibile che l’indagine congiunta Vaticano-Italia dissipi la fitta nebbia durata quarant’anni.