L’articolo del professor Orsini, pubblicato il 29 novembre 2024 sulla. rivista on line Sicurezza Internazionale, affronta con rigore sociologico un tema altamente sensibile: la possibile qualificazione di quanto avviene a Gaza come genocidio. La questione, sollevata in dialogo con Liliana Segre, viene declinata attraverso un’analisi fenomenologica delle parole e un richiamo alla necessità di includere il punto di vista delle vittime nella definizione degli eventi. Questo approccio offre spunti di riflessione, ma apre anche a questioni metodologiche, morali e politiche di grande complessità.
Le caratteristiche sociologiche del genocidio
Orsini delinea con precisione alcune caratteristiche che, secondo lui, qualificherebbero gli eventi a Gaza come genocidio: l’annientamento delle condizioni materiali di esistenza, l’assenza di vie di fuga, l’uso sproporzionato della forza e la riduzione dei palestinesi alla fame attraverso il blocco degli aiuti umanitari. Questi elementi, inquadrati nella teoria della violenza politica, non possono essere ignorati. Tuttavia, occorre interrogarsi sulla loro collocazione in un contesto più ampio: la presenza di un conflitto militare, la complessità delle responsabilità e le dinamiche geopolitiche. Il genocidio, come definito dalla Convenzione ONU del 1948, richiede l’intento di distruggere un gruppo “in tutto o in parte”, un elemento che, pur essendo evocato nell’articolo, necessita di ulteriori verifiche giuridiche e analisi storiche.
Il confronto con la memoria dell’Olocausto
La posizione di Liliana Segre, che invita a usare il termine “genocidio” con cautela per non svalutare l’unicità dell’Olocausto, è centrale nel dibattito. Orsini contesta questa prospettiva, sostenendo che il riconoscimento di un genocidio a Gaza non intaccherebbe la memoria dell’Olocausto nazista. Questo punto, però, solleva un dilemma etico: come bilanciare la necessità di riconoscere nuove forme di genocidio con il rispetto della memoria storica di eventi unici nella loro brutalità? La sociologia fenomenologica, pur utile a ridefinire concetti, deve fare i conti con la sensibilità storica e con l’impatto emotivo delle parole sul discorso pubblico.
Il ruolo del linguaggio e dei paradigmi culturali
Un aspetto particolarmente incisivo dell’analisi di Orsini è il richiamo ai limiti culturali dell’Occidente nel riconoscere nuove forme di genocidio. La critica al “pregiudizio eurocentrico” invita a interrogarsi su come la narrazione dominante possa occultare la sofferenza delle vittime. Tuttavia, questa riflessione si scontra con la difficoltà di trovare un consenso universale su definizioni e categorie, soprattutto in un contesto polarizzato come quello israelo-palestinese.
Un dibattito necessario, ma incompleto
L’articolo di Orsini rappresenta un contributo importante al dibattito, spingendo il lettore a interrogarsi sui limiti delle categorie analitiche e sull’urgenza di ascoltare le voci delle vittime. Tuttavia, la sua prospettiva potrebbe essere arricchita da un’analisi più articolata delle responsabilità politiche e militari, includendo anche il ruolo di Hamas e delle potenze regionali nel perpetuare il conflitto. Solo un approccio olistico può restituire la complessità di quanto accade a Gaza, senza ridurre il dibattito a una mera contrapposizione ideologica.
La parola “genocidio” come arma a doppio taglio
Definire gli eventi a Gaza come genocidio è una scelta che comporta profonde implicazioni morali e politiche. Da un lato, riconoscere la gravità della situazione è essenziale per mobilitare la comunità internazionale. Dall’altro, l’uso del termine richiede una cautela estrema, per evitare di trasformare una tragedia umana in uno strumento di battaglia ideologica. Il contributo di Orsini, pur stimolante, lascia aperti interrogativi cruciali: quanto può il linguaggio influenzare la percezione della realtà e la possibilità di una soluzione pacifica? E, soprattutto, come evitare che le parole diventino ostaggi di interessi di parte, distogliendo l’attenzione dalle sofferenze reali?