C’è una battaglia in corso che sembra passare sotto silenzio, ma che tocca le fondamenta del vivere civile e della responsabilità dello Stato verso i suoi cittadini. Al centro c’è la nuova riforma del gioco d’azzardo fisico, presentata a fine ottobre dal Ministero dell’Economia, che propone di ridimensionare drasticamente le regole vigenti su distanze, luoghi sensibili e orari per le sale giochi e le scommesse. Una riforma che, in nome degli introiti fiscali – ormai superiori ai 13 miliardi di euro l’anno – rischia di sacrificare la salute pubblica e incentivare una piaga sociale sempre più evidente: la ludopatia.

Il messaggio del Governo è chiaro. Ridurre troppo l’offerta di gioco significherebbe “significative ripercussioni sulle entrate erariali”. Le casse dello Stato, in altre parole, sono diventate così dipendenti dal denaro che proviene dall’azzardo da anteporre questa esigenza a quella di tutelare i cittadini, specialmente i più fragili. Una posizione che non solo suona cinica, ma che rischia di tradursi in un incentivo mascherato alla dipendenza dal gioco.

Una riforma che preoccupa

La proposta, già duramente contestata da Regioni e Comuni, ridimensiona uno degli strumenti più efficaci contro la diffusione dell’azzardo: il distanziometro. Le normative regionali attualmente in vigore prevedono che sale scommesse e slot non possano essere aperte a meno di 300-500 metri da luoghi sensibili come scuole, chiese, oratori, centri anziani e impianti sportivi. Il nuovo piano del Governo, invece, azzera questa distanza per le cosiddette “sale certificate” – esercizi che dovrebbero garantire una maggiore professionalità e prevenzione dei disturbi da gioco patologico. Ma la formazione promessa per questi esercizi e il personale addetto al controllo sono, al momento, poco più che una dichiarazione d’intenti.

Anche per le sale non certificate le regole diventano più permissive: la distanza minima dai luoghi sensibili scende a soli 200 metri. E come se non bastasse, i luoghi definiti “sensibili” vengono drasticamente ridotti. Solo le scuole secondarie e i centri di cura per le dipendenze restano tutelati. Spariscono dall’elenco oratori, parrocchie, centri anziani e università. Così, una sala scommesse potrà tranquillamente sorgere accanto a un centro di aggregazione giovanile o a un luogo di culto, aumentando il rischio di coinvolgere proprio quelle categorie più vulnerabili che lo Stato dovrebbe proteggere.

Un gioco che non è un gioco

Non è un caso che il presidente della CEI, il cardinale Matteo Zuppi, abbia lanciato un duro monito contro questa riforma, definendo il gioco d’azzardo “non un gioco, ma una schiavitù”. E come dargli torto? Le cifre sulla ludopatia parlano chiaro: decine di migliaia di persone in Italia sono intrappolate in una dipendenza che distrugge vite, famiglie e comunità. Debiti insostenibili, isolamento sociale, perdita del lavoro, aumento dei casi di depressione e, nei casi peggiori, suicidi. Sono queste le conseguenze che si nascondono dietro i numeri scintillanti degli introiti fiscali.

Ma il Governo sembra ignorare tutto questo, preoccupato più delle entrate che delle persone. Un paradosso, soprattutto in un momento storico in cui la società è già provata da crisi economiche e fragilità crescenti. Anziché puntare su politiche di educazione e prevenzione, lo Stato sembra voler fare cassa sulla pelle dei più deboli, alimentando una spirale che, a lungo termine, rischia di diventare insostenibile.

Lo scontro con gli enti locali

Regioni e Comuni, che ogni giorno toccano con mano le conseguenze sociali dell’azzardo, sono nettamente contrari alla proposta governativa. Gli enti locali chiedono regole più severe: il ripristino del distanziometro attuale, l’inclusione di tutti i luoghi sensibili e una riduzione significativa del numero di slot machine e sale scommesse. Ma la posizione del Governo resta lontana, sebbene i tribunali amministrativi abbiano spesso dato ragione a chi sostiene restrizioni più rigide per motivi di “utilità sociale”.

La distanza tra le due posizioni si riflette anche nei numeri. Il Governo propone 55mila esercizi (tra bar, tabacchi e sale gioco) e 245mila macchinette, mentre gli enti locali chiedono una riduzione a 44mila esercizi e 221mila slot. Una differenza che potrebbe sembrare tecnica, ma che si traduce in migliaia di luoghi di tentazione in meno per chi combatte contro la dipendenza.

Quale Stato vogliamo?

La riforma del gioco d’azzardo solleva una domanda fondamentale: quale modello di Stato vogliamo costruire? Uno Stato che educa i cittadini alla responsabilità e alla libertà, o uno Stato che li rende schiavi delle proprie debolezze per garantirsi un flusso costante di entrate?

Lo Stato non può essere complice di una dipendenza che rovina vite. Non può giustificare una scelta diseducativa e socialmente pericolosa con l’alibi del gettito fiscale. Deve, invece, trovare altre strade per finanziare il bene comune, strade che non passino sulla pelle di chi è più fragile.

Se non si interviene con regole più severe e con politiche di prevenzione e cura della ludopatia, il costo sociale sarà insostenibile. E non si potrà dire che non era prevedibile.