La legge finanziaria 203 del 30 dicembre 2023, con l’introduzione di un significativo aumento dei contributi per l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) per i religiosi provenienti da Paesi extra-europei, ha scatenato un acceso dibattito tra le istituzioni religiose e il governo italiano. Il contributo, che passava da 397,34 euro annui a 2.000 euro, è una cifra che mette in difficoltà non solo i singoli religiosi, ma intere congregazioni e istituti, che spesso già lottano con risorse limitate per mantenere le proprie attività caritative e di assistenza.
La legge, che si inserisce in una serie di misure volte a regolamentare la sanità in Italia, ha suscitato forti preoccupazioni tra i religiosi, molti dei quali svolgono un lavoro fondamentale nelle comunità locali, anche in ambito sanitario e socio-sanitario. Tuttavia, secondo il Ministero della Salute, il contributo maggiorato è stato pensato per riflettere i costi pro-capite del sistema sanitario, ma l’aumento ha sollevato diverse domande: è giusto che chi contribuisce al bene comune, soprattutto attraverso attività caritative e di assistenza, venga penalizzato da un aumento tanto drastico? E come si concilia questo provvedimento con l’impegno sociale e la carità che la Chiesa esprime quotidianamente?
Il nodo della questione risiede nel fatto che i religiosi extra-europei, pur non avendo un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, si trovano in una situazione ibrida. Non essendo considerati lavoratori subordinati o autonomi, non hanno diritto all’iscrizione automatica al SSN. L’attività svolta è, infatti, motivata dal senso di vocazione e appartenenza al proprio ordine religioso, piuttosto che da un contratto di lavoro tradizionale. Questo li rende particolarmente vulnerabili a modifiche legislative che non tengono conto della specificità del loro ruolo.
Le soluzioni proposte, come l’iscrizione a polizze assicurative private o la conversione del permesso di soggiorno per motivi religiosi in permesso di lavoro, sembrano complicate e difficili da attuare per le molte congregazioni che non hanno le risorse per far fronte a costi aggiuntivi o che potrebbero trovarsi in difficoltà nel modificare lo status di soggiorno di ciascun membro. In effetti, la gran parte degli istituti religiosi non ha la struttura burocratica per navigare tra le complessità di queste modifiche e rischia di trovarsi a fronteggiare un’imposizione economica insostenibile.
Il tema dell’assistenza sanitaria in Italia, quindi, non è solo una questione di numeri e bilanci, ma riguarda anche la giustizia sociale. Come ha sottolineato suor Marilena Argentieri, presidente del Centro Nazionale Economi di Comunità (CNEC), l’obiettivo è garantire il diritto alla salute per tutti, senza creare discriminazioni. Le comunità religiose sono sempre più internazionali e la legge, come è stato osservato da più parti, sembra dimenticare il valore sociale delle congregazioni che operano in Italia, non solo per scopi religiosi ma anche per il bene della collettività, in particolare nelle aree più fragili della società.
A livello numerico, la situazione è allarmante: si stima che 4.000 suore e 2.000 religiosi provenienti da Paesi extra-europei e operanti in Italia dovranno pagare un contributo annuo di 2.000 euro ciascuno dal 1° gennaio 2024. Fino allo scorso anno, questi religiosi versavano circa 400 euro a testa, un incremento che va a gravare ulteriormente sulle già risicate risorse delle comunità religiose. Inoltre, se consideriamo anche i religiosi in formazione, la cifra si estende a un totale di circa 6.000 persone, una cifra che, nel complesso, pesa enormemente sul bilancio delle congregazioni, le quali sono chiamate a sostenere questo esborso senza alcun supporto economico specifico da parte dello Stato.
Nonostante l’aumento dei contributi al SSN, l’ammontare complessivo che lo Stato guadagnerà da questa misura non è così significativo come potrebbe sembrare. Infatti, considerando che la stima è di circa 200.000 stranieri extra-europei in Italia, con un introito previsto di circa 240 milioni di euro, è evidente che si tratti di una somma marginale rispetto al bilancio nazionale. Tuttavia, per i religiosi, l’imposizione diventa un peso insostenibile, minacciando la sostenibilità delle loro missioni sociali e spirituali.
Inoltre, dietro questa disposizione potrebbe celarsi una vendetta politica nei confronti della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), vista la divergenza delle sue posizioni con il governo Meloni, in particolare per quanto riguarda le politiche migratorie. È interessante notare, però, che a farne le spese non sono i vescovi o i preti diocesani, che hanno un proprio contributo mensile legato al sostentamento del clero e quindi sono automaticamente iscritti al SSN, ma i religiosi e le religiose che operano nella gratuità, impegnati nel servizio ai poveri e nelle comunità locali. Questi, spesso privi di risorse proprie, si trovano a dover fronteggiare un aggravio che non ha alcuna corrispondenza con la natura del loro lavoro sociale.
Le interlocuzioni tra le organizzazioni religiose e il governo italiano, come quelle con la CEI, Usmi e Cism (Conferenze Superiori Maggiori di religiose e religiosi in Italia), stanno cercando di trovare una soluzione che contemperi l’esigenza di copertura sanitaria con la necessità di garantire il proseguimento delle attività religiose e sociali. Tuttavia, il fatto che la normativa non sia stata modificata subito lascia aperte molte domande sul futuro delle congregazioni e sul trattamento riservato agli stranieri impegnati in attività di culto.
Con l’arrivo del Giubileo 2025, la speranza è che si possa trovare una soluzione equilibrata che consideri l’importanza del lavoro svolto dai religiosi e dalle religiose, non solo dal punto di vista religioso, ma anche sociale.
Solo per l’anno giubilare, visto l’afflusso di religiosi stranieri per aiutare la cura pastorale dei milioni di pellegrini a Roma, c’è stata una riduzione del contributo da 2000 € a 700 €. Cosa avverrà nel 2026?
La solidarietà tra le istituzioni religiose e il governo italiano è più che mai necessaria per risolvere questa questione, affinché non si passi dal diritto alla salute a una situazione di ingiustizia sociale. Il dialogo rimane la chiave, e il momento è cruciale per giungere a un compromesso che non solo rispetti le normative economiche, ma che rispetti anche il valore umano e sociale del lavoro dei religiosi e delle religiose in Italia.