Quando Monsignor Fulgence Muteba, presidente della Conferenza Episcopale Nazionale del Congo (CENCO), afferma che “un governo d’unione nazionale non risolverà tutto”, non si limita a una dichiarazione politica: lancia un monito profondo sulla natura stessa del conflitto che insanguina l’Est della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Perché in Congo, come in molte crisi africane, la guerra non è solo un affare di potere: è il riflesso di fratture strutturali, abbandoni storici e manipolazioni geopolitiche esterne.

La recente visita dei religiosi congolesi negli Stati Uniti, per chiedere sostegno al “pacte social” promosso dalla Chiesa, è un tentativo coraggioso di spostare la diplomazia dalle cancellerie alla società civile. È un gesto che rifiuta la logica delle élite chiuse in stanze negoziali e afferma invece che la pace è un’opera collettiva, che deve coinvolgere popoli, comunità, vittime e testimoni.

Un governo d’unione? Troppo poco per troppo dolore

L’idea di un “governo d’unione nazionale”, proposta nei circoli della politica congolese e sostenuta da alcuni attori internazionali, nasce dalla convinzione che solo una coalizione allargata possa riportare stabilità. Ma Mons. Muteba non si fa illusioni: la crisi dell’Est non è una semplice crisi di potere, ma una guerra radicata in decenni di esclusione, sfruttamento minerario predatorio, e connivenze transfrontaliere.

In altre parole: cambiare il governo senza cambiare il sistema non basta. La RDC non ha bisogno solo di accordi politici di vertice, ma di una ricomposizione del tessuto sociale, di una riforma profonda dell’economia estrattiva, e di un nuovo contratto tra Stato e cittadini. È questa la logica del “pacte social” che i vescovi stanno portando anche sulle scrivanie di Washington.

Il ruolo della Chiesa: attore politico e morale

In Congo, la Chiesa cattolica non è mai stata solo un attore spirituale. È la struttura più capillare, più credibile e più radicata del Paese, soprattutto dove lo Stato è assente. Gli ospedali, le scuole, i centri di mediazione e persino l’osservazione elettorale: tutto passa – e spesso sopravvive – grazie alla rete ecclesiale.

La CENCO, insieme alla piattaforma protestante ECC, è oggi una delle poche voci in grado di parlare a nome del popolo, fuori dai giochi clientelari e corrotti che caratterizzano la politica di Kinshasa. Non a caso, è anche una delle più ascoltate a livello internazionale.

Il Congo come specchio dell’Africa colonizzata due volte

La guerra nell’Est è il cuore di un conflitto africano che ha radici globali. Non è solo il Rwanda a essere implicato: ci sono le compagnie minerarie cinesi, i contractor europei, le milizie etniche manipolate, le multinazionali americane e canadesi del coltan e del litio. È il paradigma del “nuovo colonialismo estrattivo”: la RDC produce materie prime strategiche per il mondo digitale, ma in cambio riceve guerra, sfollamento e instabilità.

Il “pacte social” della Chiesa è un atto di ribellione contro questa logica. Significa chiedere un nuovo ordine africano, in cui la pace non è il premio della diplomazia, ma il diritto originario delle popolazioni locali.

Verso una diplomazia etica?

Il fatto che la CENCO si sia rivolta agli Stati Uniti non è scontato. È un invito a una diplomazia etica, che non guardi solo agli equilibri con Kigali o Kampala, ma alla sofferenza delle comunità di Goma, Beni, Ituri e Bukavu. Significa dire che la sicurezza non si misura in blindati ma in scuole ricostruite, in ospedali aperti, in miniere regolate e non armate.

Mons. Muteba ha ragione: nessun governo d’unione può garantire la pace, se prima non si riforma l’architettura della fiducia tra lo Stato e i suoi cittadini. E questo non si negozia nei palazzi, ma si costruisce ogni giorno, con una politica che abbia il coraggio di dire la verità e di difendere la vita.

Il Congo non ha bisogno solo di nuovi ministri.

Ha bisogno di una nuova visione.

E forse – oggi – solo la Chiesa ha ancora il coraggio di indicarla.