La tragica morte di don Donald Martin Ye Naing Win, barbaramente assassinato nella casa parrocchiale della Chiesa di Nostra Signora di Lourdes in Myanmar, è un episodio che scuote le coscienze e solleva interrogativi profondi non solo sulla persecuzione dei cristiani, ma anche sullo stato di anarchia in cui versa il Paese.
Un martirio moderno
Ciò che colpisce di più in questa vicenda non è solo la ferocia dell’aggressione, ma la testimonianza di don Donald, che con una calma disarmante ha scelto di non inginocchiarsi davanti alla violenza, ma solo davanti a Dio. Le sue ultime parole non sono state di supplica o paura, ma di dialogo e di pace: “Cosa posso fare per voi?”. Una domanda che non ha trovato risposta se non nella brutalità cieca di uomini accecati dall’alcool e dalla rabbia. Il suo silenzio nel subire la morte, “come un agnello al macello”, richiama immediatamente la figura di Cristo, il quale, davanti ai suoi carnefici, non ha reagito con odio, ma con l’offerta totale della propria vita.
Questo sacrificio richiama i martiri di ogni epoca, da San Paolo Miki e i suoi compagni in Giappone a padre Jacques Hamel, sgozzato nel 2016 in Francia. Anche don Donald ha testimoniato una fede incrollabile fino all’ultimo respiro, in un contesto in cui la Chiesa si fa portatrice non solo di spiritualità, ma anche di servizi essenziali per una popolazione abbandonata dalle istituzioni.
Il collasso di uno Stato e l’assenza di giustizia
L’omicidio del sacerdote si inserisce in un quadro più ampio di instabilità. La regione di Sagaing è un territorio in cui il sistema statale è collassato: non ci sono servizi pubblici, l’istruzione è affidata a iniziative locali come quelle della parrocchia e la giustizia si muove su equilibri precari. Le stesse Forze di Difesa Popolare, che hanno arrestato i colpevoli, sono espressione di un’autorità parallela che cerca di imporsi contro la giunta militare, ma che non dispone di un vero quadro giuridico stabile.
Ci troviamo di fronte a un paradosso: chi ha assassinato don Donald apparteneva a una milizia locale che, teoricamente, combatte per la “liberazione” del Myanmar dalla dittatura militare. Eppure, quella stessa resistenza ha generato mostri incapaci di distinguere il bene dal male, uomini armati e privi di disciplina, che seminano il terrore invece che la libertà. La violenza non è solo nel governo militare, ma si insinua anche tra coloro che si presentano come difensori della popolazione.
L’assenza di un vero Stato di diritto trasforma ogni crimine in un rischio di impunità. Chi giudica chi, in un sistema in cui la giustizia è affidata a milizie locali? Il Governo di Unità Nazionale ha promesso punizioni esemplari, ma quale legge può davvero essere applicata in un contesto in cui tutto è frammentato e soggetto alla logica della forza?
Chiesa perseguitata, ma sempre in prima linea
La Chiesa cattolica, in Myanmar come in tanti altri Paesi in crisi, è spesso l’ultima presenza di ordine, dignità e servizio alla popolazione. Mentre i governi collassano, mentre gli eserciti si sfidano, sono i preti, le suore, i laici impegnati che rimangono accanto ai poveri, offrendo non solo aiuto materiale ma anche una luce di speranza. È per questo che vengono colpiti: perché sono simboli di un’autorità diversa, fondata non sulle armi, ma sulla fede e sulla carità.
Una testimonianza che non si spegne
La morte di don Donald Martin Ye Naing Win non è un semplice fatto di cronaca, ma una testimonianza potente che interroga il mondo. Cosa significa oggi essere cristiani in contesti di guerra e anarchia? Quanto vale la vita di un sacerdote in un Paese che ha perso ogni riferimento istituzionale? E soprattutto, quale risposta dare a una violenza così insensata?
Don Donald ha già risposto con il suo sacrificio: rimanendo fedele fino alla fine, testimoniando la forza della fede davanti alle armi e all’odio. Il suo sangue, versato su quella terra martoriata, è il seme di una speranza che nessun coltello potrà spegnere.
una bellissima testimonianza!