Ci sono immagini che non solo spezzano il cuore, ma scavano nell’anima il senso più cupo della disumanità. Quella che si è vista a Khan Yunis è una di queste: il ritorno in Israele dei corpi di Shiri Bibas, dei suoi figli Ariel e Kfir – un bambino di quattro anni e un neonato di appena nove mesi – e del pacifista Oded Lifshitz, messi in scena da Hamas come un macabro spettacolo propagandistico.

Le bare nere, allineate come oggetti di una sinistra coreografia, non sono state restituite con il minimo rispetto dovuto ai defunti, ma trasformate in una scenografia di odio. Intorno, miliziani armati e a volto coperto, mentre un’enorme gigantografia mostrava Benjamin Netanyahu nelle vesti di un vampiro assetato di sangue. A fianco, lo slogan in inglese: «Il criminale di guerra Netanyahu e il suo esercito nazista li hanno uccisi con i missili dei bombardieri sionisti». Le parole, il simbolismo, la messa in scena: tutto studiato per incendiare l’odio, per trasformare i morti in un’arma politica.

Ma l’orrore non si è fermato lì. Quando la Croce Rossa ha ricevuto le bare per il trasferimento, Israele ha scoperto che erano chiuse a chiave. Ma le chiavi consegnate non le aprivano. Un ultimo gesto di cinismo e crudeltà. Per sicurezza, gli artificieri dell’esercito hanno dovuto ispezionarle per escludere la presenza di esplosivi prima di forzare le serrature e restituire i corpi ai loro cari. Un ulteriore affronto alla dignità delle vittime e al dolore delle famiglie, come se la morte da sola non fosse già stata abbastanza.

Questo non è stato solo il primo rilascio di ostaggi deceduti, ma una delle messe in scena più feroci di questa guerra che divora tutto. Perché in questo conflitto, dove la logica dell’annientamento reciproco ha sostituito ogni ragionevolezza, i morti non sono più solo vittime: diventano trofei, strumenti di vendetta, carne da propaganda.

Eppure, chi oggi denuncia l’orrore di questa macabra teatralizzazione non può ignorare che la morte non ha un solo volto. Le strade di Gaza sono disseminate di altrettante bare e sudari bianchi che avvolgono corpi innocenti, bambini ridotti in pezzi dai bombardamenti, famiglie spazzate via in un attimo. È la stessa spirale di odio che si autoalimenta, lo stesso deserto morale in cui ogni fazione giustifica le proprie atrocità con quelle del nemico.

Le bare nere di Khan Yunis e i sudari bianchi di Gaza sono due lati della stessa devastazione. In questo scenario, non si può più nemmeno parlare di giustizia o di legittima difesa: c’è solo la brutalità che risponde alla brutalità, in una catena che sembra non avere fine.

E allora la vera domanda è: esiste ancora qualcuno che voglia spezzare questo ciclo infernale? O siamo ormai condannati a un Medio Oriente in cui la morte è solo un messaggio da lanciare al nemico e l’umanità è stata completamente sacrificata sull’altare dell’odio?