Per oltre trent’anni, il Medio Oriente è stato lo scenario di grandi ambizioni diplomatiche americane destinate al fallimento. Ogni amministrazione statunitense ha tentato, con strategie diverse, di stabilizzare la regione, ma alla fine ha lasciato il potere con un Medio Oriente più instabile e pericoloso di prima.
Dalla speranza di Bill Clinton per un accordo di pace israelo-palestinese, naufragata con il fallimento di Camp David e l’inizio della seconda intifada, alla “trasformazione” della regione tentata da George W. Bush con la guerra in Iraq, che ha invece rafforzato l’Iran e creato un vuoto di potere sfruttato dallo Stato Islamico. Barack Obama ha puntato sulla diplomazia con l’accordo sul nucleare iraniano, solo per vedere la regione esplodere con l’ascesa dell’ISIS, la guerra civile in Siria e il colpo di stato in Egitto. Donald Trump ha cercato di contenere l’Iran con l’uscita dall’accordo nucleare e l’uccisione di Qasem Soleimani, ma ha lasciato il mandato con Teheran più aggressiva e avanzata nel suo programma nucleare. Joe Biden, cercando un approccio pragmatico, ha visto il suo mandato sconvolto dalla guerra tra Israele e Hamas, scatenata il 7 ottobre 2023.
Un ciclo di illusioni e fallimenti
Il dato di fatto è che il Medio Oriente non può essere ignorato dagli Stati Uniti. Ogni presidente ha cercato di ridurre il coinvolgimento americano, ma nessuno è riuscito a sottrarsi alle dinamiche caotiche della regione. Il fallimento americano è stato duplice: da un lato, la convinzione di poter plasmare il Medio Oriente secondo il modello occidentale; dall’altro, la sottovalutazione della resilienza e delle rivalità storiche che animano i conflitti locali.
La politica americana ha alternato periodi di interventismo (Bush in Iraq) a tentativi di disimpegno (Obama con il ritiro dall’Iraq e l’accordo con l’Iran), ma ogni mossa ha generato conseguenze impreviste: il ritiro prematuro ha lasciato spazio all’ISIS, mentre l’interventismo ha trasformato la regione in un terreno di guerriglia perenni.
Trump e il Medio Oriente: opportunità o caos?
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il Medio Oriente si trova a un nuovo bivio. Se da un lato la regione sembra più instabile che mai, dall’altro Trump eredita alcune opportunità strategiche.
L’Iran, principale antagonista americano, è oggi più debole economicamente e militarmente rispetto al passato. Con Hezbollah e Hamas indeboliti, e la sua economia al collasso a causa delle sanzioni e della cattiva gestione interna, Teheran potrebbe essere più incline a un nuovo accordo nucleare. Trump potrebbe sfruttare la situazione per negoziare un’intesa più restrittiva rispetto a quella di Obama, con limiti duraturi all’arricchimento dell’uranio e vincoli ai programmi missilistici iraniani.
Allo stesso tempo, la guerra a Gaza rappresenta un problema spinoso ma anche una possibilità: se riuscisse a mediare un cessate il fuoco duraturo e un piano per il “giorno dopo” Hamas, Trump potrebbe rilanciare il suo obiettivo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Tuttavia, il rischio è che la sua imprevedibilità e il suo approccio impulsivo possano peggiorare la situazione, come dimostrano i suoi tagli ai finanziamenti per i palestinesi e le dichiarazioni controproducenti su Gaza.
Uno scenario in continua evoluzione
Il Medio Oriente rimane una regione dove le previsioni falliscono e gli equilibri cambiano rapidamente. Se Trump saprà cogliere le opportunità offerte dalla fragilità iraniana e dalla necessità di stabilizzare Gaza, potrebbe ottenere risultati che i suoi predecessori hanno mancato. Ma se cederà ai suoi istinti più aggressivi, rischierà di trasformare il Medio Oriente nell’ennesimo disastro della politica estera americana.
L’unica certezza è che la regione continuerà a essere un banco di prova per ogni amministrazione americana, dimostrando che, nonostante le ambizioni di Washington, il Medio Oriente non si lascia facilmente plasmare dalle potenze esterne.