In un momento in cui l’Europa è già appesantita da una guerra nel cuore dell’Ucraina, da pressioni migratorie crescenti, da crisi energetiche e da un alleato americano sempre più ondivago, il progetto di secessione della Republika Srpska rappresenta non solo una minaccia regionale, ma la cartina di tornasole della capacità del continente di difendersi e di definirsi. Il silenzioso e metodico smantellamento dello stato bosniaco ad opera di Milorad Dodik e dei suoi sostenitori – locali e internazionali – non è un incidente isolato: è l’ennesima tessera di un mosaico globale dove l’Europa viene sistematicamente messa alla prova.
Una strategia di pressione multilivello
In Bosnia, in Ucraina, nel Sahel o nel Caucaso, si registra la medesima dinamica: lo sfruttamento delle faglie etniche, storiche e istituzionali per disarticolare l’ordine liberale europeo. Nel caso balcanico, Mosca gioca su un terreno che conosce bene. I Balcani occidentali, storicamente zona cuscinetto tra imperi, sono oggi il fianco scoperto della sicurezza europea, e la Republika Srpska è il vettore perfetto per una destabilizzazione a basso costo.
Se c’è una lezione che gli europei dovrebbero aver imparato dal 2014 in avanti, è che la guerra non arriva più con i carri armati al confine, ma con le narrative tossiche, con le crisi di legittimità, con la complicità di governi amici degli autocrati. Così agisce oggi il Cremlino: non invade, si insinua. Scommette sulle divisioni più che sulle invasioni. E se la Bosnia-Erzegovina crolla, sarà un trionfo strategico per Putin e un segnale devastante per i Balcani, l’Ucraina e la Moldavia.
Europa nel mirino, America altrove
Nel frattempo, Washington sta cambiando priorità. L’America trumpiana – già in gran parte all’opera – si riposiziona. La NATO non è più il perno, ma un optional. La priorità diventa contenere la Cina, militarizzare l’Indo-Pacifico, mantenere l’egemonia navale. Gli europei, nel frattempo, si ritrovano a finanziare una macchina bellica alimentata dal complesso militare-industriale americano, senza avere un vero controllo strategico sugli scenari.
La verità è amara: quando cambia il nemico, cambia la narrazione, ma non l’imperativo dell’armamento. Oggi la Cina è il pericolo del momento, ma ciò che conta davvero è che la macchina della difesa produca, esporti, alimenti bilanci pubblici e carriere private. L’Europa paga – economicamente e politicamente – per una sicurezza che non riesce a garantire nemmeno a se stessa.
Dodik, il laboratorio del collasso europeo
Il caso Dodik va interpretato per ciò che realmente è: un test politico, militare, istituzionale. Se la Bosnia cede, l’intero edificio post-Dayton crolla. Non solo: si perde l’unico laboratorio istituzionale multietnico nato da un processo di pace multilaterale. Il messaggio sarebbe chiaro: la diplomazia non funziona, la forza sì. È un messaggio che risuona non solo a Banja Luka, ma a Tbilisi, a Yerevan, a Pristina, a Chisinau.
La Repubblica Serba di Dodik è ormai uno stato nello stato. Ha leggi autonome, una narrativa propria, alleanze internazionali parallele, forze armate in potenza. Un secessionismo tollerato oggi sarà un irredentismo armato domani. E l’Europa lo sa: non c’è bisogno di truppe regolari per scatenare un’altra Srebrenica. Basta l’impunità.
Parlare non basta: o si agisce o si implode
Le parole, le risoluzioni, le dichiarazioni di condanna sono diventate valuta inflazionata nella diplomazia europea. Senza misure reali – sanzioni, presenza fisica, revisione del sistema istituzionale bosniaco – Dodik diventerà l’icona di una nuova stagione di sfaldamento degli stati post-bellici.
Il nuovo ordine mondiale non sarà deciso a Bruxelles né a Davos, ma in luoghi come Brčko, dove si giocherà la partita sulla permeabilità delle democrazie deboli, sull’efficacia del diritto internazionale, sulla resilienza dell’Europa come soggetto geopolitico. L’Europa può fermare Dodik. Se non lo fa, sarà un altro passo verso la sua irrilevanza sistemica.
La sovranità europea o ritorno al caos
La Bosnia-Erzegovina è oggi lo specchio della fragilità europea. Il vuoto lasciato da Washington non è solo militare, è soprattutto politico. E in quel vuoto, i nazionalisti come Dodik e i regimi come quello russo prosperano. Se l’Europa non è capace di imporsi come garante della stabilità nel proprio continente, come potrà affrontare le sfide globali di domani?
La storia non aspetta. E stavolta, non si potrà dire che non sapevamo.