Nel teatro mutevole della geopolitica, i nemici degli Stati Uniti cambiano, ma la narrazione strategica resta sorprendentemente identica. Si tratti della Russia, della Cina o di qualsiasi altra nazione fuori orbita occidentale, il messaggio resta invariato: l’Occidente deve armarsi. Ma armarsi per cosa? Per chi? E soprattutto: chi ci guadagna davvero?
La recente visita del nuovo segretario generale della NATO, Mark Rutte, in Giappone, è solo l’ultima tappa di una lunga strategia di riadattamento narrativo. Non appena si profila una possibile distensione con Mosca, ecco che il pericolo si sposta sull’asse Pechino-Taipei. La logica non è nuova: per giustificare l’espansione della spesa militare e la proliferazione degli armamenti – produzione a trazione americana, spesa a carico europeo e asiatico – serve un nemico credibile, visibile, possibilmente ideologicamente distante. E se la Russia comincia a cedere il passo, la Cina è pronta a raccogliere il testimone del “grande antagonista”.
Cambiano le minacce, non l’economia della guerra
Dal punto di vista economico, il modello è noto: military Keynesianism. Si sostiene la domanda, si mantiene viva la filiera industriale bellica, si garantisce un costante flusso di fondi pubblici verso i contractors della difesa. Il Pentagono funziona come un grande hub di redistribuzione strategica della ricchezza, il cui effetto collaterale – o forse principale – è mantenere l’egemonia americana nei teatri internazionali.
L’Europa, da parte sua, segue a rimorchio, aumentandosi da sola i budget per la difesa mentre taglia sulla sanità e sull’istruzione. L’Asia, sotto pressione da Washington, accetta ruoli crescenti nella rete di contenimento anti-cinese, anche se ciò significa rinunciare a una neutralità costruttiva. Il Giappone lo dimostra con la richiesta di partecipare a operazioni NATO in Ucraina, nonostante le proprie storiche restrizioni costituzionali.
Il nemico utile: dalla Russia alla Cina (passando per l’Iran e la Corea del Nord)
Come ha affermato lo stesso Rutte, i “teatri euro-atlantico e indo-pacifico si stanno fondendo” in un unico fronte della minaccia. Ma a ben vedere, l’unica cosa che si fonde davvero è la narrativa che giustifica una guerra permanente. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Cina è accusata non solo di sostenere lo sforzo bellico di Mosca, ma anche di sviluppare una flotta navale troppo moderna, troppo in fretta. Come se crescere fosse, in sé, una colpa geopolitica.
La guerra in Ucraina diventa quindi il pretesto ideale per militarizzare anche l’Estremo Oriente, dove la NATO sta stringendo rapporti sempre più solidi con i membri del cosiddetto IP4 (Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda). La dichiarata volontà di creare una “NATO asiatica” è ciò che Pechino teme – e forse, a ragione.
Le guerre ibride dell’informazione: chi controlla la narrativa?
A tutto questo si aggiunge il potere della comunicazione. L’informazione mainstream occidentale, in larga parte allineata con i centri decisionali di Washington e Bruxelles, racconta ogni conflitto come una lotta tra civiltà e barbarie, tra democrazia e autoritarismo. È uno schema che funziona, perché offre certezze in un mondo instabile. Ma semplifica fino a distorcere, e legittima ogni forma di escalation.
Si discute del reclutamento di cittadini cinesi tra le truppe russe, si denuncia l’intervento della Corea del Nord e si tace – almeno in parte – il ruolo degli USA nel provocare, sostenere, armare e beneficiare dei conflitti per procura. Nessuno si scandalizza se Lockheed Martin, Raytheon e Northrop Grumman fatturano record mentre i cittadini europei pagano le bollette della guerra.
Il prezzo della pace è il silenzio
Il messaggio è chiaro: chi parla di pace è, per definizione, sospetto. In questo clima, anche il dialogo diventa un rischio. Chi cerca una soluzione diplomatica viene tacciato di collusione, chi mette in dubbio la corsa agli armamenti è accusato di ingenuità. Ma la vera ingenuità è credere che si possa costruire la sicurezza globale su una tensione permanente.
Come ha dichiarato Zelensky, l’Ucraina ora si trova a fronteggiare “più Nazioni che combattono sulla nostra terra per i propri interessi”. È una confessione involontaria ma illuminante: le guerre moderne non si combattono solo per difesa, ma per influenza, accesso alle risorse, posizionamento strategico. E il campo di battaglia è spesso l’Europa orientale, l’Asia meridionale, il Mediterraneo allargato.
L’industria della paura e la geopolitica dell’interesse
La pace è assente perché non è redditizia. Il riarmo è l’unico dogma trasversale, l’unica voce di bilancio non soggetta a tagli. In questo schema, il nemico cambia volto, ma la funzione resta la stessa: giustificare l’imperativo bellico e mantenere vivo il ciclo produzione-conflitto-risposta-industriale.
Finché l’Europa non troverà una sua voce autonoma e una memoria storica che non sia riscritta dai centri d’interesse americano-britannici, continuerà a finanziare guerre altrui e a sopportarne le ricadute interne. La vera sfida geopolitica non è scegliere tra Mosca e Pechino, ma decidere se l’Occidente ha ancora un progetto proprio, oltre la subalternità economico-militare.
Perché la guerra, in fondo, è un affare. Ma non sempre dell’umanità.