Si celebra oggi la VII giornata mondiale dei poveri.
È facile, parlando dei poveri, cadere nella retorica. È una tentazione insidiosa anche quella di fermarsi alle statistiche e ai numeri. I poveri sono persone, hanno volti, storie, cuori e anime. Sono fratelli e sorelle con i loro pregi e difetti, come tutti, ed è importante entrare in una relazione personale con ognuno di loro, come ci ricorda Papa Francesco.
Il 16 marzo del 2013: ricevendo i rappresentanti dei media, nell’Aula Paolo VI, Papa Francesco appena eletto affermò: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”.
Tre anni più tardi, in una lettera inviata nel 2016 a don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, il Pontefice invoca un ritorno alle radici: “In un mondo lacerato dalla logica del profitto che produce nuove povertà e genera la cultura dello scarto, non desisto dall’invocare la grazia di una Chiesa povera e per i poveri. Non è un programma liberale, ma un programma radicale perché significa un ritorno alle radici. Il riandare alle origini non è ripiegamento sul passato ma è forza per un inizio coraggioso rivolto al domani. È la rivoluzione della tenerezza e dell’amore”.
Alla luce dei fatti di Gaza e dell’Ucraina il Pontefice pensa in modo particolare alle popolazioni che vivono in luoghi di guerra, specialmente ai bambini privati di un presente sereno e di un futuro dignitoso.
Papa Francesco nella lettera per la Giornata mondiale dei poveri di quest’anno firmata lo scorso 13 giugno, giorno dedicato al santo dei poveri Antonio di Padova, profeticamente già leggeva lo scenario politico e sociale di questi giorni nei quali si stanno svolgendo manifestazioni di piazza per contestare i tagli della Legge di bilancio.
Per le povertà, malgrado i limiti e talvolta le inadempienze della politica nel vedere e servire il bene comune, il Papa si augura lo sviluppo della solidarietà e sussidiarietà di tanti cittadini che credono nel valore dell’impegno volontario di dedizione ai poveri. Si tratta certo di stimolare e fare pressione perché le pubbliche istituzioni compiano bene il loro dovere; ma non giova rimanere passivi in attesa di ricevere tutto dall’alto: chi vive in condizione di povertà va anche coinvolto e accompagnato in un percorso di cambiamento e di responsabilità.
La conversione inizia da noi stessi e la Chiesa deve farsene interprete.
Il “sogno di Francesco” ci ricorda un fatto del 16 novembre 1965.
Pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari celebrarono l’eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù.
Dopo questa celebrazione firmarono il “Patto delle catacombe”.
Il documento era una sfida ai “fratelli nell’episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII.
I firmatari si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale.
Il “patto delle catacombe” venne ostracizzato da alcuni cardinali e vescovi che si fecero aiutare dal megafono degli ultratradizionalisti.
La Chiesa in Italia, ad esempio, aveva per decenni beneficiato dei privilegi della politica.
Poiché nulla è gratuito sono poi esplosi tanti scandali che hanno messo a dura prova la sua credibilità e la stessa fede di tanti cattolici sconcertati.
Oggi, in Italia, i rapporti bilaterali Stato-Chiesa sono più franchi e costruttivi in un rispetto reciproco senza la paggeria di un tempo.
Tutto questo si deve all’esempio di Francesco che paga, a sua volta, il prezzo degli attacchi alla sua persona da vili hatersdella tastiera orchestrati persino da qualche cardinale e monsignore.
Per onestà storica e intellettuale, è bene disporre del testo del “patto delle catacombe” per capire quanto alti siano i suoi contenuti e quanto pretestuose le accuse.
I delatori dell’epoca arrivarono a chiamare i firmatari: eretici, modernisti e massoni.
Ancora oggi sono gli epiteti panacea di chi non ha argomenti dialettici.
Ecco il testo del “Patto delle catacombe”:
Noi, vescovi riuniti nel concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri fratelli nell’episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti delle nostre rispettive diocesi; ponendoci con il pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
1. Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di trasporto e tutto il resto che da qui discende. Cf. Mt 5,3; 6,33 ss.; 8,20.
2. Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9 ss.; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, eccetera; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33 ss.
3. Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi a una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At 6,1-7.
4. Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (eminenza, eccellenza, monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di “padre”. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Gv 13,12-15.
5. Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
6. Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
7. Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, eccetera, al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama a evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18 ss.; Mc 6,4; Mt 11,4 ss.; At 18,3 ss.; 20,33-35; 1Cor 4,12 e 9,1-27.
8. Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33 ss.
9. Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44 ss.; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9; 1Tim 5,16.
10. Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo:
a) a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
b) a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
11. Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così:
a) ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;
b) formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo Spirito che capi secondo il mondo;
c) cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…;
d) saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34 ss.; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Due mesi prima della firma del “Patto per una Chiesa serva e povera”, Papa Paolo VI si era recato nelle Catacombe di Domitilla e aveva affermato: “Qui il cristianesimo affondò le sue radici nella povertà, nell’ostracismo dei poteri costituiti, nella sofferenza d’ingiuste e sanguinose persecuzioni; qui la Chiesa fu spoglia d’ogni umano potere, fu povera, fu umile, fu pia, fu oppressa, fu eroica. Qui il primato dello spirito, di cui ci parla il Vangelo, ebbe la sua oscura, quasi misteriosa, ma invitta affermazione, la sua testimonianza incomparabile, il suo martirio”.
Articolo molto illuminante. Non sapevo del Patto delle Catacombe. Ora capisco perché Bergoglio è così attaccato.
Tutte scuse i monsignori pascià che invocano La sana dottrina, giudicano di modernismo chi non la pensa come loro…. Macché! Sono loro che stanno in difetto, ma di brutto!
State crescendo. Continuate così!