C’è qualcosa di emblematico nel voto di Strasburgo che ha visto il Partito Democratico spaccarsi sulla risoluzione per la difesa europea. Non è solo un dissenso tecnico, né un incidente di percorso: è lo specchio fedele di un partito ancora in bilico tra identità diverse, tra un passato di pragmatismo europeista e una nuova visione che cerca di definirsi.

Elly Schlein ha scelto l’astensione, confermando la sua posizione critica verso il piano di Ursula von der Leyen. Una scelta che voleva essere un segnale di coerenza, ma che si è rivelata l’ennesima crepa in una struttura che fatica a reggersi. Dieci deputati dem hanno votato a favore, undici si sono astenuti. Se non fosse stato per gli indipendenti Cecilia Strada e Marco Tarquinio, la segretaria sarebbe finita in minoranza nel suo stesso gruppo.

L’ambiguità come condanna

La politica estera è il banco di prova dell’identità di un partito. Definisce lo standing, la coerenza, il respiro strategico. E proprio su un tema così dirimente, il Pd si è rivelato diviso e incerto, con Schlein impegnata in un difficile esercizio di equilibrio.

Non è un segreto che la segretaria voglia marcare una discontinuità con il passato: il Pd di oggi non può essere il partito del “sì” automatico a ogni piano europeo, soprattutto quando si tratta di riarmo e spese militari. Eppure, questa linea non è abbastanza netta da imporsi, né abbastanza sfumata da risultare inclusiva.

La sua posizione è chiara: «All’Europa serve una difesa comune, non una corsa agli armamenti dei singoli Stati». Un’idea nobile, certo, ma che cozza con la realtà politica di un’Europa che sta già facendo i conti con il cambio di rotta americano e con la necessità di rafforzare le proprie capacità militari.

Il risultato? Il Pd si è spaccato, e la sua segretaria ha dato l’impressione di non poter controllare davvero il partito.

Congresso o resa dei conti?

Il voto di Strasburgo ha aperto una ferita che difficilmente si rimarginerà da sola. Gianni Cuperlo propone un “congresso tematico”, un luogo dove discutere a fondo della politica estera e della linea del partito. Luigi Zanda rilancia la questione della leadership, chiedendo una riforma dello statuto che chiarisca chi sceglie davvero il segretario: gli iscritti o il pubblico delle primarie?

Schlein, dal canto suo, sembra voler tirare dritto. Ma per quanto? La sua base elettorale è vasta, ma il gruppo dirigente è rimasto quello di sempre, radicato in una tradizione che vede l’Europa come punto di riferimento indiscutibile. Se la segretaria vuole davvero imprimere un cambiamento, deve affrontare la questione alla radice: cos’è oggi il Pd? E cosa vuole diventare?

Un bivio inevitabile

Si avvicinano le elezioni europee, e il Pd non può permettersi di arrivarci con un’identità a metà. La politica estera non è un terreno su cui si può mediare all’infinito: o si sceglie una posizione chiara, o si accetta di rimanere un partito sospeso, troppo riformista per i progressisti, troppo radicale per i moderati.

Schlein ha una scelta davanti a sé. Può tentare di riformare il partito, ridefinendo le sue regole e la sua identità. Oppure può continuare a muoversi su un equilibrio precario, rischiando di restare imprigionata in un partito che non la riconosce davvero come sua leader.

Il tempo delle mediazioni sta finendo. E quando arriverà il momento di scegliere, non saranno i giochi di palazzo a fare la differenza, ma la capacità di imprimere una visione chiara e riconoscibile. Perché la politica, in fondo, è fatta di scelte. E il Pd non può più permettersi di rimandarle.