Ci sono saggi che non solo descrivono il presente, ma lo anticipano, lo scrutano nelle sue tensioni più profonde e ne delineano il destino con una lucidità quasi profetica. Uno di questi è senza dubbio il pensiero di Hannah Arendt sull’espropriazione del mondo, un concetto che si dispiega nella sua analisi della modernità e della perdita di un luogo comune in cui gli uomini possano esistere come esseri politici, partecipi della storia e del futuro.
Arendt non si limita a osservare l’evoluzione del mondo moderno, ma ne coglie il cuore pulsante: la progressiva dissoluzione della realtà condivisa, lo smarrimento dello spazio pubblico e la riduzione dell’uomo a individuo isolato, disconnesso dalla sua comunità e dal suo tempo. In questa visione, l’espropriazione del mondo non è solo materiale – la perdita della proprietà, della terra, delle risorse – ma anche esistenziale: è la privazione della capacità di agire insieme, di trovare senso nella collettività.
L’espropriazione come disumanizzazione
Nel suo studio sulla nascita del totalitarismo, Arendt sottolinea come l’uomo moderno sia stato progressivamente privato del suo diritto alla città, al dialogo, alla polis intesa come luogo di parola e confronto. L’espropriazione non è solo un fenomeno economico o politico, ma una mutilazione antropologica: è la cancellazione dello spazio comune in cui si articola la libertà umana. Quando gli uomini non possono più agire insieme, quando vengono resi superflui, si genera una massa atomizzata e vulnerabile, pronta a essere manipolata dai regimi e dalle ideologie.
Questa riflessione appare profetica se guardiamo alla nostra contemporaneità, segnata da un’accelerazione vertiginosa della perdita del mondo. La globalizzazione ha reso la terra un mercato senza volto, il lavoro un ingranaggio senza nome, la comunità un’illusione consumistica. L’individuo, immerso nel flusso costante delle informazioni e della digitalizzazione, ha perso il contatto con il reale, sostituendolo con un simulacro mediatico. Arendt aveva già colto questa dinamica: l’espropriazione non avviene solo con la forza, ma attraverso processi che svuotano il mondo di significato, dissolvono il senso di appartenenza, riducono il pensiero critico a opinione volatile.
Un mondo senza dimora
Nel suo capolavoro Le origini del totalitarismo, Arendt descrive la condizione degli apolidi e dei rifugiati come il simbolo di una modernità che ha privato milioni di esseri umani del loro diritto più fondamentale: il diritto a esistere come parte di un mondo. Essere privati della cittadinanza, della terra, del riconoscimento giuridico non è solo un dramma sociale, ma una forma di alienazione radicale. L’espropriazione del mondo è anche questo: non avere più un luogo da chiamare casa, essere condannati a un’esistenza interscambiabile, deprivata di stabilità e radici.
Eppure, questa riflessione non riguarda solo i popoli in fuga, ma tutta la società moderna, sempre più segnata da una precarietà diffusa che rende ogni individuo un esule anche dentro la propria città. Le metropoli contemporanee, spersonalizzate e uniformate, sono il segno di una civiltà in cui gli uomini abitano ma non appartengono, in cui la casa non è più un luogo, ma un investimento, in cui il lavoro non è più una vocazione, ma una prestazione anonima.
La profezia di Arendt per il nostro tempo
Arendt non era una profetessa in senso escatologico, ma la sua lucidità analitica ha reso il suo pensiero un faro per comprendere le derive del nostro tempo. L’espropriazione del mondo è oggi più che mai una realtà tangibile: la disumanizzazione del lavoro, la perdita di legami sociali autentici, la riduzione dell’essere umano a dato statistico, il dominio di un’economia che trasforma tutto in merce, compresa la coscienza.
Ma c’è un aspetto che rende il suo pensiero ancora più attuale: la resistenza alla perdita del mondo passa attraverso la capacità di pensare, di dialogare, di agire insieme. Non c’è salvezza nell’isolamento, nella chiusura individualistica, nella rassegnazione. Arendt ci insegna che l’unico antidoto all’espropriazione è rivendicare il diritto alla politica nel senso più nobile del termine, non come esercizio di potere, ma come spazio di costruzione di senso.
Nel nostro tempo, in cui la tecnologia sembra sostituire l’incontro, in cui il virtuale rimpiazza il concreto, il monito di Arendt suona più attuale che mai: non perdere il mondo, non cedere alla tentazione dell’indifferenza, non smettere di essere uomini politici, cittadini di un’umanità che ancora può scegliere il proprio destino.