Mentre il mondo guarda altrove – Gaza, Ucraina, Taiwan – in un’aula della Corte Internazionale di Giustizia si consuma una battaglia epocale per la dignità africana. Il Sudan ha compiuto un gesto senza precedenti: ha citato gli Emirati Arabi Uniti in giudizio per complicità nel genocidio. Un’accusa pesantissima, fondata su prove circostanziate e – fatto ancora più clamoroso – corroborata da analisi di esperti ONU. Il bersaglio non è un attore marginale, ma uno dei principali attori economici e geopolitici del Golfo.
Sotto accusa è il sostegno militare, logistico e finanziario che Abu Dhabi avrebbe fornito alle RSF (Rapid Support Forces), il gruppo paramilitare che da un anno devasta il Darfur occidentale con esecuzioni sommarie, violenze sessuali, sfollamenti di massa e pulizia etnica del popolo Masalit. Un sostegno che, stando alla denuncia sudanese, si è concretizzato in armi, droni, formazione militare e pagamento di mercenari, spesso attraverso canali opachi che attraversano il Ciad e il sistema bancario emiratino.
Questa mossa non è solo un atto di accusa contro gli Emirati. È anche – e soprattutto – una sfida aperta al sistema internazionale, che da decenni tollera le ingerenze esterne nei conflitti africani nel nome degli “interessi strategici” o del ricatto energetico. Troppi Paesi – tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia – tacciono o minimizzano, accecati dal petrolio, dagli investimenti infrastrutturali e dalla diplomazia del denaro che Abu Dhabi esercita con abilità.
Ma il Sudan ha rotto il silenzio. E con esso, si rompe un paradigma postcoloniale: quello in cui le vittime africane devono soffrire in silenzio mentre le grandi potenze si spartiscono le colpe sotto banco. Il fatto che la denuncia venga non da un tribunale africano, ma dalla Corte dell’Aia, è un messaggio potente: l’Africa è stanca di essere il laboratorio delle guerre altrui, finanziate da lontano e combattute sul proprio suolo.
Molti temono – a ragione – che il caso finirà insabbiato tra cavilli diplomatici e giochi di potere al Consiglio di Sicurezza. Ma anche in questo scenario, il danno per gli Emirati è fatto: l’immagine del “riformista” Mohamed bin Zayed rischia di sgretolarsi, e il Paese che si propone come mediatore globale e hub del dialogo diventa ora sinonimo di doppio standard.
E non è un caso se questa denuncia arriva mentre il dissenso interno agli Emirati cresce silenziosamente, e l’asse con Mosca e Pechino si rafforza. Il Golfo non è solo alleato dell’Occidente: è un competitor autoritario globale, che oggi si trova nella scomoda posizione di dover rispondere a un’accusa che finora solo la società civile aveva il coraggio di sollevare.
Il Darfur non può più essere il “conflitto dimenticato”. Non dopo centinaia di villaggi rasi al suolo, decine di migliaia di morti e oltre sette milioni di sfollati in Sudan. E non si può fingere neutralità quando le rotte delle armi parlano chiaro, e i flussi di denaro lasciano tracce precise. Il crimine del genocidio, lo ricorda la Convenzione del 1948, non ammette complicità passiva. Chi arma, finanzia, protegge o anche solo chiude un occhio diventa parte del disegno criminale.
L’udienza del 10 aprile sarà solo l’inizio. Ma il vero processo è già iniziato, e si svolge davanti all’opinione pubblica africana e mondiale. Perché oggi, nel silenzio assordante delle diplomazie occidentali, è il popolo sudanese a chiedere giustizia in nome di tutti i popoli africani colpiti da guerre per procura. E la domanda è brutale quanto necessaria: quanti altri genocidi servono prima che si dica basta?