Il Vaticano ha recentemente rinnovato per altri quattro anni il controverso accordo con la Cina sulla nomina dei vescovi, proseguendo una collaborazione iniziata nel 2018.
Questo rinnovo, che estende l’accordo fino al 2028, mira a continuare il dialogo tra la Santa Sede e Pechino per la gestione congiunta delle nomine episcopali nel territorio cinese. Tuttavia, l’accordo rimane controverso, poiché il governo cinese ha più volte violato i termini, nominando vescovi senza il consenso del Papa, come è avvenuto con il caso del vescovo di Shanghai e del vescovo ausiliare di Jiangxi .
L’accordo del 2018 rappresenta un tentativo di sanare una frattura che durava da decenni, con l’obiettivo di unire i vescovi “ufficiali” riconosciuti dal governo cinese e quelli appartenenti alla Chiesa “sotterranea”, fedele al Papa. Nonostante ciò, le tensioni non si sono risolte completamente, e i cattolici non ufficiali continuano a subire persecuzioni e pressioni, mentre la libertà religiosa in Cina resta fortemente limitata .
Questo tipo di accordo non è una novità assoluta nella storia del cattolicesimo. Anche in passato, alcune monarchie europee, come quelle di Francia, Spagna e Austria, avevano il privilegio di influenzare le nomine episcopali nei loro regni, in base a concordati stabiliti con la Santa Sede. Tali prelazioni consentivano alle corti di selezionare vescovi fedeli alle politiche nazionali, pur mantenendo la necessità del consenso papale. Questi privilegi furono spesso fonte di tensioni tra Stato e Chiesa, ma rappresentavano un compromesso simile a quello che si sta cercando con la Cina oggi.
In sintesi, sebbene il rinnovo dell’accordo Vaticano-Cina rappresenti un passo diplomatico significativo, esso riflette le sfide storiche tra l’autonomia di governo della Chiesa e le ingerenze dello Stato.