Nel panorama delle discussioni globali sull’intelligenza artificiale (IA), la narrativa dominante è quella di una corsa al dominio tecnologico tra Stati Uniti e Cina. L’idea è semplice e intuitiva: chi avrà più dati e una tecnologia più avanzata conquisterà il primato economico e militare. La Cina, con la sua popolazione di oltre un miliardo di persone e una regolamentazione lassista sulla privacy, viene spesso dipinta come favorita, mentre gli Stati Uniti, grazie a un sistema universitario d’élite e a una forza lavoro altamente qualificata, mantengono una posizione di rilievo sul fronte dell’innovazione.
Tuttavia, questa prospettiva rischia di essere fuorviante. Ridurre l’IA a una competizione bilaterale ignora i modi più profondi in cui questa tecnologia sta trasformando i sistemi politici stessi, sia nelle democrazie sia nei regimi autoritari. L’apprendimento automatico, cuore dell’IA moderna, non è solo uno strumento tecnologico, ma un motore che riformula i cicli di feedback su cui si basano le società per funzionare. Ed è qui che emergono le sfide più complesse.
Il feedback della democrazia e i rischi per l’autoritarismo
Nelle democrazie come gli Stati Uniti, il feedback tra cittadini e governo è spesso imperfetto, ma funziona. Elezioni, proteste e stampa libera permettono di correggere gli errori e adattarsi ai cambiamenti. Tuttavia, l’IA può amplificare le divisioni e compromettere questo equilibrio. Algoritmi ottimizzati per massimizzare l’attenzione tendono a favorire contenuti estremi, che polarizzano l’opinione pubblica e avvelenano il dibattito democratico. La disinformazione diventa più credibile e capillare, rendendo difficile distinguere il vero dal falso.
Nei regimi autoritari, il problema è opposto ma altrettanto grave. L’IA può dare l’illusione di un consenso, rafforzando le ideologie del potere centrale e nascondendo le crepe sociali fino a quando è troppo tardi. La capacità dell’IA di monitorare e predire il comportamento umano sembra un vantaggio per i dittatori, ma il rischio è che i dati siano distorti dai pregiudizi stessi del regime. Questo porta i leader a decisioni sbagliate, isolate dalla realtà sul terreno. Il caso della Cina e della sua politica “zero COVID” ne è un esempio lampante: il sistema di feedback basato sui dati ha creato successi a breve termine ma ha ignorato i costi sociali ed economici a lungo termine.
Una tecnologia che non risolve i pregiudizi, ma li amplifica
La tecnologia dell’IA non è neutrale: riflette i pregiudizi dei dati su cui è addestrata. Un esempio noto è l’algoritmo di reclutamento di Amazon, che discriminava contro le donne perché si basava su un database costruito su decisioni umane già di parte. Nelle democrazie, questi problemi, per quanto gravi, possono essere corretti grazie alla possibilità di protestare e avviare riforme. Nei regimi autoritari, invece, la correzione è quasi impossibile, perché il sistema stesso scoraggia il dissenso.
L’IA rischia così di trasformarsi in una trappola per i regimi autoritari: uno strumento che promette efficienza e controllo, ma che in realtà amplifica le patologie interne, portando a decisioni sempre più lontane dalla realtà. Il rischio per le democrazie, invece, non è tanto che l’IA distrugga il sistema, quanto che ne deformi il funzionamento, erodendo la fiducia dei cittadini e avvelenando il dialogo pubblico.
Una corsa da ripensare
La domanda cruciale non è chi vincerà la corsa per il dominio dell’IA, ma come questa tecnologia cambierà i sistemi politici e le relazioni internazionali. La tentazione per le democrazie di sfruttare le debolezze degli autoritarismi attraverso la disinformazione è alta, ma pericolosa. Non solo perché può alimentare instabilità globale, ma perché i problemi delle autocrazie non restano confinati. Catastrofi indotte dall’IA, come politiche economiche fallimentari o conflitti territoriali, possono avere ripercussioni devastanti anche sulle democrazie.
Un approccio più saggio sarebbe quello di promuovere una governance condivisa dell’IA. Le rivalità geopolitiche non possono oscurare i rischi comuni: la disinformazione alimentata dall’IA, l’amplificazione dei pregiudizi e la polarizzazione sono minacce globali che richiedono una risposta coordinata. Creare principi internazionali per la regolamentazione dell’IA non è solo un atto di cooperazione, ma una necessità per garantire che questa tecnologia non diventi il catalizzatore di nuove forme di instabilità.
In definitiva, l’IA non è una semplice questione di competizione tra Stati. È uno specchio delle fragilità dei nostri sistemi politici. Se non impariamo a gestirla con saggezza, rischiamo di trasformare un potente strumento di progresso in un acceleratore delle nostre divisioni. La vera sfida non è dominare l’IA, ma governarla insieme.