Un dossier apparso sul New York Times il 24 dicembre 2024 ha portato alla luce uno dei capitoli più controversi della guerra in Afghanistan, evidenziando come le scelte strategiche degli Stati Uniti abbiano contribuito al disastroso epilogo del conflitto. L’Afghanistan, teatro di una guerra lunga vent’anni, rappresenta oggi la testimonianza di come strategie miopi e alleanze pericolose possano distruggere ogni speranza di stabilità. La storia di Kunduz, provincia settentrionale che avrebbe dovuto essere una roccaforte contro i talebani, incarna il paradosso di un intervento occidentale che, invece di rafforzare la democrazia, ha alimentato corruzione, violenza e sfiducia.

La strategia delle milizie: una scelta disastrosa

Nell’estate del 2009, la disperazione di un ufficiale americano portò all’adozione di una tattica rischiosa: il reclutamento di milizie private. Un’iniziativa nata per sopperire alla mancanza di forze di polizia afgane si trasformò presto in un incubo per la popolazione locale. Personaggi come Mohammad Omar, noto come il “Wall Breaker”, divennero protagonisti di abusi sistematici, saccheggi, rapimenti e omicidi. Milizie create per combattere i talebani finirono per terrorizzare gli stessi civili che avrebbero dovuto proteggere.

Questa decisione, presa con l’intenzione di arginare i talebani, ha in realtà alimentato la loro avanzata. Le comunità, esasperate dagli abusi delle milizie, hanno iniziato a vedere nei talebani un male minore, trovando rifugio tra le loro fila. Come ha affermato un abitante di Kunduz: “Abbiamo sostenuto i talebani, perché hanno combattuto le milizie”.

Un errore americano non forzato

Il sostegno americano a questi gruppi, finanziati e armati indirettamente, rappresenta un errore strategico che ha compromesso l’intera missione in Afghanistan. Nonostante i numerosi segnali di allarme, come rapporti diplomatici che denunciavano gli abusi delle milizie, gli Stati Uniti non sono intervenuti. Il risultato è stato il caos: bande di miliziani che si combattevano tra loro, villaggi distrutti e civili costretti a scelte drammatiche per sopravvivere.

La caduta di Kunduz nel 2021 è stata il simbolo del fallimento di questa strategia. I talebani, paradossalmente, hanno sfruttato la divisione e l’impopolarità delle milizie per consolidare il proprio potere, mostrando una coesione che il governo afgano e i suoi alleati non sono mai riusciti a raggiungere.

Le conseguenze del ritiro occidentale

Il ritiro americano ha sancito la capitolazione di un progetto già fallito. Le milizie, invece di garantire la sicurezza, hanno distrutto il tessuto sociale afgano, alimentando una guerra civile che ha reso impossibile ogni tentativo di resistenza contro i talebani. Personaggi come Haji Fateh, famigerato comandante di milizia, hanno incarnato la brutalità e la corruzione che hanno minato la fiducia nelle istituzioni afgane.

Oggi, con i talebani al potere, le cicatrici lasciate da questa strategia sono ancora visibili. Intere comunità, devastate dalle milizie e abbandonate dagli alleati occidentali, si trovano a ricostruire un futuro incerto sotto un regime che non rappresenta certo un modello di democrazia.

Un monito per il futuro

La storia di Kunduz non è solo un capitolo oscuro della guerra in Afghanistan, ma un monito per ogni intervento internazionale. La mancanza di una visione strategica, l’alleanza con forze discutibili e l’incapacità di ascoltare le esigenze della popolazione locale hanno condannato l’Afghanistan a un destino segnato.

L’Occidente non può più permettersi errori di questa portata. Se vuole davvero promuovere la democrazia e i diritti umani, deve imparare dalle sue sconfitte, evitando di sostenere sistemi corrotti e strategie miopi che distruggono ciò che si propone di costruire. Altrimenti, Kunduz non sarà l’ultimo esempio di un intervento fallito che lascia dietro di sé solo macerie, dolore e un senso di tradimento.