TESTIMONIANZE: Attingiamo dal diario di Rami Abu Jamous fondatore di Gaza Press il racconto di chi ha vissuto in prima persona le atrocità di un conflitto sembra un grido lanciato nel vuoto. Eppure, è attraverso queste testimonianze che emerge la cruda realtà della mancanza di dialogo e della disumanizzazione che si è infiltrata in ogni angolo del conflitto israelo-palestinese.

La storia di Moises (nome di fantasia ndr) un lavoratore di Gaza che a partire da settembre 2022, ha trovato impiego in Israele, ad Acri, in un’azienda che produce tralicci d’alta tensione, ci offre uno spaccato desolante delle conseguenze di una politica che privilegia interessi particolari, di potere ed ideologici, a scapito del rispetto dei diritti umani e della dignità personale.

Il lavoro era stato ottenuto attraverso un intermediario, un kablan, spesso un palestinese israeliano. Questa rete di intermediazione, che prevede trattenute sullo stipendio da parte del kablan, è già di per sé un riflesso di come il sistema economico sia intrinsecamente legato a dinamiche di sfruttamento. La paga di 350 shekel al giorno (87 euro) rappresentava per lui una possibilità di sostentamento per sé e la sua famiglia. Tuttavia, il suo permesso di lavoro, rinnovato con difficoltà, lo ha costretto a rimanere in Israele per sei mesi consecutivi, temendo che ogni rientro a Gaza potesse compromettere la possibilità di un ulteriore rinnovo.

Il ritorno a Israele il 5 ottobre 2022 ha segnato l’inizio di una nuova odissea. Il 7 ottobre, il principale israeliano ha dichiarato che lui e i suoi colleghi di Gaza non potevano più lavorare. La deportazione forzata a Ramallah, in Cisgiordania, ha segnato l’inizio di un calvario fatto di abbandono, paura e violenze. Dopo tre settimane di solidarietà iniziale, la realtà si è trasformata in un incubo quando il Servizio di sicurezza preventiva palestinese ha cercato di trasferirli a Gerico, costringendoli alla fuga.

Il racconto del rifugio in un garage a Qalqiliya, nascosti e traditi da un collaborazionista, culmina con l’irruzione violenta dell’esercito israeliano. Picchiati, umiliati e costretti a spogliarsi completamente nudi, hanno subito violenze fisiche e psicologiche che miravano a distruggere la loro dignità. L’umiliazione sistematica, ripresa anche su video, non era mirata a ottenere informazioni, ma a lasciare cicatrici indelebili nella mente e nel corpo delle vittime. Questo è un riflesso di come il conflitto si sia trasformato in una guerra contro l’umanità stessa, in cui ogni palestinese è visto come un nemico da schiacciare, indipendentemente dal suo ruolo o dalle sue azioni.

Le torture subite durante il trasferimento e la detenzione, l’interrogatorio sotto minaccia, le condizioni disumane di prigionia sono l’emblema di una vendetta cieca e brutale. L’intento non è solo quello di eliminare la resistenza fisica, ma di spezzare l’anima e lo spirito dei prigionieri. L’interrogatorio finale, con i prigionieri costretti a inginocchiarsi sulla ghiaia, rappresenta l’apice della crudeltà, un tentativo di annientamento psicologico che lascia cicatrici profonde.

Questo racconto mette in luce una verità dolorosa: l’assenza di dialogo e la prevalenza di interessi particolari hanno reso il conflitto una spirale di disumanizzazione. L’umiliazione subita non è solo un atto di violenza fisica, ma un tentativo deliberato di cancellare l’umanità dell’altro. Questo è un monito su come la mancanza di dialogo e la predominanza di ideologie estreme possano trasformare il nemico in un oggetto da distruggere, perdendo di vista l’essenza stessa della nostra umanità condivisa.