“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Dopo 75 anni dalla Costituzione della Repubblica italiana c’è da chiedersi quale si il significato di questa formula con la quale si apre il primo monumento giuridico del nostro ordinamento statale.
Fu merito del democristiano Fanfani la formulazione definitiva che intendeva il lavoro in senso ampio, come partecipazione collettiva alla crescita ed al benessere della collettività.
La nostra economia di mercato rivela come la mancanza di lavoro comporti un disagio, non solo sociale, ma anche individuale, mortificando la realizzazione della persona.
Il giurista Pietro Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione, in un incontro con gli studenti nel 1955 rivelò lo stretto legame tra l’art. 34, l’art. 3 e l’art. 1, come scelte della commissione costituente di inserire il lavoro come principio fondamentale e fondante della Repubblica Italiana.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo – L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro – corrisponderà alla realtà.
Qualora queste condizioni non fossero realizzate, l’Italia non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia, in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
Questo era lo spirito dei padri costituenti della Repubblica in un momento caratterizzato da grandi speranze ma anche da grandi sofferenze, come è stato il secondo dopoguerra: la speranza di un futuro migliore dopo gli anni bui del fascismo e della guerra; la sofferenza della miseria e della disoccupazione.
Il lavoro visto quindi come un diritto-dovere che consente a tutti i cittadini di partecipare attivamente alla vita del paese, alla rinascita del paese.
Non possiamo non riconoscere che oggi, più che mai, in un periodo di crisi economica che ha messo ed ancora mette in ginocchio imprese e famiglie, la centralità del lavoro come strumento per la piena attuazione dei diritti dei cittadini e degli uomini è più che mai un principio attuale.
La civiltà di uno Stato degno di questo nome si misura soprattutto dalla capacità di non lasciare indietro nessuno. Di concedere a tutti la possibilità di realizzarsi, di inseguire i propri sogni e di soddisfare i propri bisogni.
Ce lo ricorda la nostra storia recente e ce lo conferma l’attuale panorama socio-economico, fatto di numeri senza appello. Nei primi tre mesi dell’anno le retribuzioni medie italiane sono cresciute del 2,2%, dato in assoluto più basso d’Europa, mentre l’inflazione è schizzata al 7,6. Il caro-vita ha eroso il potere d’acquisto di 5,4 punti. Oltre 7 milioni di lavoratori attendono da tempo il rinnovo dei contratti. Nel Mezzogiorno è occupata meno di una donna su tre. Quasi 3 milioni di ragazzi sotto i 34 anni non studiano né lavorano. Più di 5 milioni e mezzo di persone sopravvivono in povertà assoluta.
Se è vero che ci sono tre milioni di Neet, ragazzi e ragazze che non studiano e non lavorano, se è vero che i detenuti per i quali si costruiscono le occasioni lavorative hanno meno probabilità di tornare a commettere reati, se è vero che l’autonomia economica per le donne è questione di diritti oltre che di produttività per il Paese, se è vero che il lavoro è sempre stata la miglior forma di inclusione per chi viene nel nostro Paese, se è vero che in passato le aziende preferivano pagare le multe invece di assumere (come prevede la legge) le persone portatrici di disabilità, allora il Primo maggio diventa molto di più di un’occasione per rivendicare qualcosa: diventa un giorno nel quale istituzioni, imprese, sistemi di rappresentanza, dai sindacati ai corpi intermedi, dovrebbero individuare alcune priorità e costruire progetti di inclusione.
In realtà, per fortuna ce ne sono già molti.
Ma ancora non sufficienti a dare attuazione, dopo 75 anni, al primo articolo della Costituzione.
Governare il Paese è molto più impegnativo, molto diverso dal combattere all’opposizione quello che fanno gli altri. Richiede competenza, serietà, dedizione assoluta.