La giornata internazionale della donna celebrata ogni 8 marzo pone delle riflessioni sul ruolo della donna nella società e sul prezzo della sua emancipazione peraltro non ancora raggiunta a livello globale.
Il livello di emancipazione raggiunto dalle donne è a macchia di leopardo a livello globale.
Abbiamo in Europa personaggi di spicco come Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni e in Afghanistan o in Iran ragazze che non possono frequentare la scuola secondaria o mostrare una ciocca di capelli che fuoriesce dall’hijab.
Tra esaltazioni e frustrazioni, la giornata internazionale della donna dell’8 maggio è un momento per ribadire, da un lato le conquiste delle donne e dall’altro continuare a denunciare le discriminazioni e le violenze che subiscono.
C’era una volta in Italia
Appena cent’anni fa, in Italia, le donne non sempre sposavano l’uomo che amavano: il loro matrimonio era deciso dalla famiglia. Sebbene da parte di immigrati, questo è ancora avvenuto di recente a Novellara, nelle campagne del reggiano, con esiti raccapriccianti.
L’opinione pubblica ricorda infatti Saman Abbas, la ragazza diciottenne vittima della furia omicida degli stessi genitori e familiari di origine pakistana che ne hanno poi occultato il cadavere.
La giovane, secondo una tradizione tribale estranea all’islam, ma praticata di alcune aree del suo Paese, era stata intimata a sposare un connazionale che forse neanche conosceva.
Il suo rifiuto all’imposizione dei parenti ha decretato la crudele fine della sua esistenza.
In Italia, ancora nel 1975, picchiare la moglie non era reato. La Cassazione stabilì che la potestà maritale poteva essere esercitata anche con “mezzi coercitivi”: gli schiaffi, i calci, i pugni… le bastonate?
I “femminicidi, come si chiamano ora, c’erano già, ma non facevano notizia.
Il cosiddetto “cornuto” che ammazzava la moglie adultera non finiva neanche in galera: si trattava del “delitto d’onore” parodiato anche nelle commedie all’italiana del cinema nostrano.
Alla cosiddetta “fuitina”, praticata soprattutto in Sicilia fino a pochi anni fa, soggiaceva spesso un matrimonio riparatore che feriva per la seconda volta ragazze alle volte rapite e quasi sempre violentate.
Ancora fino a qualche decennio fa, le fidanzate dovevano arrivare – o fingevano di arrivare – illibate al matrimonio. È una legge ipocrita che valeva solo per loro.
L’uomo poteva permettersi ogni libertà e male che andava c’erano le scandalose case chiuse.
La dipendenza economica, l’incapacità giuridica, l’analfabetismo al femminile permettevano ai nostri nonni e bisnonni di controllare le loro mogli.
Erano altri tempi.
Venne poi la Grande Guerra e con gli uomini al fronte le donne mandarono avanti il Paese; non le si potevano più rinchiudere in cucina. Ma soltanto nel 1946 poterono votare per la prima volta. Perché c’era stata la Resistenza. Le donne avevano dato un grande contributo alla conquista della libertà e della democrazia; non le si poteva più escludere dalla vita pubblica.
La donna però doveva stare a casa. Pazientare. Sopportare tradimenti, maltrattamenti, a volte violenze. La sua dignità dipendeva dalla bontà d’animo del marito, non dal diritto.
Dall’azione alla reazione
La risposta in Italia a questi abusi reiterati e radicati portò, alla legge sul divorzio e poco più tardi a quella sull’aborto.
Quale fu il prezzo per la nostra società?
La reazione contraria alle ingiustizie che le donne subivano fu, infatti, peggiore dell’azione ingiusta su di esse perpetrata.
Gli esperti del diritto riconoscono come il divorzio oggi rappresenti un flagello e un fardello, non solo economico, soprattutto per l’uomo.
L’aborto, ancor peggio, è un’ingiustizia imposta a una vita nascente innocente e indipendente dall’utero della madre, contrariamente agli slogan ideologici, ma poco scientifici, che si scandivano nelle piazze e nelle strade occupate dalle manifestazioni femministe: “l’utero è mio, me lo gestisco io”.
Il problema è che lo zigote, la morula, la blastocisti, l’embrione e finalmente il feto, non è l’utero.
Senza entrare nel merito dei drammi esistenziali che, come costante fissa, si celano dietro le rotture di vincolo coniugale e le interruzioni volontarie di gravidanza, è necessario che al revanscismo di gender si sostituisca un’antropologia culturale che riporti l’uomo e la donna alla naturale complementarità nel riconoscimento di un eguale dignità.
Un nuovo umanesimo
È necessario un ritorno all’amore e non alla guerra; a un patto mutuo collaborativo e a un patto educativo per i figli con una generosa apertura verso la vita.
Il lavoro e la maternità non sono in contrasto: in Francia e negli Stati Uniti ci sono più donne che lavorano rispetto all’Italia, e si fanno più figli. Perché i servizi, pubblici o privati, funzionano meglio e l’indipendenza economica consente alla donna di costruirsi una vita, una famiglia. Serve però una politica che sappia fare la propria parte.
Una madre è una donna più forte. Ha un’energia mentale e fisica moltiplicata. Perché è consapevole del suo potere, che nessun uomo potrà mai strapparle: generare la vita.