APPROFONDIMENTI: Dignità ontologica, uguaglianza sostanziale e solidarietà pongono le basi per una motricità della giustizia riparativa nel sentiero di promuovere scenari di costruzione di una società post-bellica. Giunti ad una faticosa tregua armata è necessario ed estremamente complesso tessere le fila di un nuovo tessuto sociale nella sinfonia delle diversità, azionando un paradigma di pensiero, azione e relazione.
La giustizia riparativa presenta una dimensione originaria e uno spessore giuridico operativo che portano a concepirla come un paradigma di ricostruzione integrale, strumento di novazione sociale, culturalmente e metodologicamente autonomo, contenutisticamente innovativo, spendibile in ogni stato e grado del procedimento di ricostruzione post-bellica, capovolgendo alla radice l’approccio e la risposta al conflitto sociale. Tale prospettiva può essere valutata nella prospettiva della diplomazia culturale per innescare una ricostruzione dei complessi legami, segnati da ferite dolorose di guerra, violazione dei diritti umani, crimini contro l’umanità. Una possibilità necessaria per vivere in una casa comune dove dovranno condividere processi vinti e vincitori, una relazione ritrovata tra opposte fazioni.
In tale chiave, nel sentiero di promuovere scenari di costruzione di una società che torva una tregua armata, all’indomani di un trattato di pace, nella quale il vinto e vincitore dovranno si trovano a costruire insieme il futuro di un territorio precedentemente conteso, è necessario ed estremamente complesso tessere le fila di un nuovo tessuto sociale nella sinfonia delle diversità, azionando un paradigma di pensiero, azione e relazione fondato sull’ecologia integrale, che possa valorizzare la storia e la memoria, la relazione nel riconoscimento delle colpe, la costruzione di una nuova relazione nell’impegno per la rigenerazione dei rapporti sociali.
Una modalità che porta alla valorizzazione di piccoli passi concreti, nella quotidianità delle relazioni, promuovendo basiche azioni di relazione condivisa fuori dal paradigma della contesa, innescando la logica del “noi” in un percorso di cura integrale dell’ ambiente sociale, politico ed economico.
Una prospettiva concreta che declina come motore di armonia, il sogno di pace per un futuro comune, nel quale benessere e fratellanza umana sono ingredienti necessari per sognare ad occhi ben aperti la cultura del dialogo come via, della collaborazione comune come condotta, della conoscenza reciproca come metodo e criterio.
Come evidenziato nel Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters adottati dalle Nazioni Unite il 24 luglio 2002:
«La giustizia riparativa è qualunque procedimento in cui la vittima e il reo e, laddove appropriato, ogni altro soggetto o comunità lesi da un reato, partecipano attivamente insieme alla risoluzione delle questioni emerse dall’illecito, generalmente con l’aiuto di un facilitatore. I procedimenti di giustizia riparativa possono includere la mediazione, la conciliazione, il dialogo esteso ai gruppi parentali [conferencing] e i consigli commisurativi [sentencing cirles].
Come ricordano i documenti internazionali sopra menzionati, i programmi di giustizia riparativa hanno come obiettivo “la reintegrazione della vittima e del reo”, perché possano essere coinvolti, nella progettazione di un’azione che guarda al futuro come persone nuovamente integre e non sminuite per sempre dall’esperienza della colpa e dell’offesa.
Nelle Regole del Consiglio d’Europa in materia di probation, “La Giustizia riparativa comprende approcci e programmi basati su diversi postulati:
a. la risposta portata al reato deve permettere di riparare, per quanto possibile, il danno provocato alla vittima;
b. occorre portare gli autori di reato a comprendere che gli atti da loro commessi non sono accettabili e che hanno reali conseguenze per la vittima e per la società; gli autori di reato possono e devono assumersi la responsabilità delle loro azioni;
c. le vittime devono avere la possibilità di esprimere i loro bisogni e di essere associate alle riflessioni che mirano a determinare come l’autore di reato deve riparare, al meglio, il danno che ha causato
d. la comunità è tenuta a contribuire a tale processo”
In un momento in cui la guerra è tornata nel continente europeo, la cultura della giustizia riparativa deve più che mai diventare un fondamentale veicolo strategico per la co-costruzione della casa comune, strumento per la migliore diplomazia dal basso. Per sfruttarne appieno il potenziale sarebbe preziosa una policy costituente e sinodale fondata sulla complessità, vocata alla ricostruzione dei legami lesi, un vero e proprio piano d’azione strategico pluriennale per favorire la ricomposizione dell’ambiente integrale compromesso dalla logica dello scontro. Solo nell’ incontro e nella relazione operosa è possibile ritrovarsi nella speranza comune di un futuro di pace attiva.
Dopo essere stata ripetutamente sollecitata in numerosi documenti e iniziative nel corso degli anni, la diplomazia culturale deve ora diventare una vera priorità in chiave preventiva per accompagnare una visione prospettica tesa al superamento della sterile contrapposizione tra blocchi bellici.
In tale dinamica relazionale e plurale, l’importanza del patrimonio culturale del singolo, in quanto tema intrinsecamente sensibile, è componente necessaria per valorizzare l’approccio alla dinamizzazione della via della pace fondata sull’ascolto, sulla sicurezza preventiva e sullo sviluppo sostenibile della casa comune.
La protezione delle tradizioni, delle memorie e il recupero della storia nelle relazione autentiche tra le parti, il ripristino e la ricostruzione del patrimonio in zone colpite da catastrofi naturali, crisi e conflitti, come l’Ucraina, l’Afghanistan, il Kosovo e la Libia, dovrebbero pertanto costituire una delle principali priorità dell’azione della giustizia riparativa.
In tale dinamica sembra strategico avviare progetti pilota in alcuni settori in cui un’azione coordinata dell’UE può fare la differenza, in relazione alle priorità politiche multilaterali per regioni, ad esempio i Balcani occidentali, il Mediterraneo, il Medio Oriente, l’Africa e l’Ucraina.
Perché un programma possa essere considerato come percorso di giustizia riparativa, sono imprescindibili:
1) la “partecipazione attiva” di reo e vittima e comunità alla gestione degli effetti distruttivi prodotti dal comportamento deviante e alla soluzione del conflitto nascente dal reato. Si tratta, per le persone coinvolte, di riappropriarsi della capacità di parola, partecipando a un percorso dialogico di riconoscimento nel quale viene restituita dignità ai vissuti e alle narrazioni di ciascuno, come premessa per fondare o ri-fondare la capacità di progettare e impegnarsi in un’azione che ripara;
2) il “riconoscimento della vittima”, e “la riparazione dell’offesa nella sua dimensione globale”: è perciò da considerare anche la dimensione emozionale dell’offesa, i sentimenti sociali che ne derivano e che causano in chi è vittima la perdita del senso di fiducia negli altri e la nascita di un vissuto di insicurezza individuale tale da indurre persino a modificare le abitudini di vita.
3) “l’autoresponsabilizzazione del reo”: il percorso prospettato dovrebbe condurre il reo a rielaborare il conflitto e i motivi che lo hanno causato, a maturare un concetto di responsabilità “verso” l’altro, ad avvertire, appunto, la necessità di riparazione; gli autori di reato coinvolti nei percorsi di giustizia riparativa (nella mediazione reo/vittima in particolare) hanno la possibilità di esplorare il significato e il contenuto della norma violata in modo concreto e non astratto attraverso l’ascolto della narrazione di una singolare esperienza esistenziale (quella della vittima);
4) “il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione”, non soltanto quale destinataria di politiche di riparazione ma anche quale attore sociale nel percorso di pace che muove dall’azione riparativa del reo. La qualità del coinvolgimento delle opinione pubblica è dunque essenziale anche per far maturare l’idea di una nuova “sicurezza” da non ricercare necessariamente nella repressione;
5) la “consensualità”: i programmi di giustizia riparativa richiedono il consenso consapevole, informato, spontaneo e revocabile delle parti avente ad oggetto le fasi dell’iter, la partecipazione alle esperienze di mediazione face to face, ai conference group, alle mediazione con vittima aspecifica ecc., e gli eventuali accordi riparativi e/o risarcitori;
6) la “confidenzialità” della mediazione: implica che l’incontro di mediazione sia protetto ed impedita qualsiasi forma di diffusione all’esterno dei suoi contenuti; tale regola permette un dialogo pieno tra le parti in un clima di fiducia, la trattazione del conflitto nel suo complesso e in tutte le sue implicazioni, facilitando quindi il raggiungimento di forme di riconoscimento reciproco e di riparazione.
7) la “volontarietà dell’accordo raggiunto tra le parti”: gli accordi che nascono dai programmi applicati debbono essere conclusi volontariamente sebbene sotto la guida dei mediatori, e non possono scaturire da decisioni prese altrove (per esempio dall’autorità giudiziaria); gli impegni riparatori devono rispondere ai criteri di “ragionevolezza e proporzione”
È essenziale allora partire da questi sette pilastri, cogliendo la sfida di una nuova ecologia sociale fondata sulla giustizia riparativa nella quale dobbiamo “superare la logica del castigo, muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise. Il reato non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o un comportamento che incrina l’ordine costituito – e che richiede una pena da espiare – bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte e che richiede, da parte del reo, principalmente l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato.”