La tragica morte di Ramy Elgaml a Milano, avvenuta il 24 novembre scorso, solleva interrogativi profondi sul rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini, sul ruolo delle forze dell’ordine e sul limite nell’uso della forza. Le immagini e gli audio diffusi sull’inseguimento che ha preceduto la morte del giovane raccontano una storia che colpisce per la sua crudezza: un inseguimento durato venti minuti, in strade cittadine percorse anche contromano, e conclusosi con un impatto fatale contro un semaforo. Le voci registrate durante l’azione evocano una freddezza che lascia senza parole: “Chiudilo, chiudilo che cade”, seguito, dopo l’impatto, da un laconico “Bene”.

Ramy e il suo amico, su uno scooter, non si erano fermati a un posto di blocco. È indubbio che questa scelta rappresenti una violazione della legge, ma può bastare per giustificare un’escalation che porta alla perdita di una vita? In uno Stato di diritto, la misura e la proporzionalità devono essere i cardini di ogni intervento pubblico, soprattutto da parte di chi rappresenta lo Stato. Quando questa misura viene meno, si rischia di trasformare la legge in uno strumento di oppressione, invece che di tutela.

Il dolore della famiglia di Ramy amplifica il peso di questa tragedia. Il padre del giovane ha parlato con dignità, chiedendo giustizia e non vendetta, ma ponendo con forza la questione del valore della vita di suo figlio. La sua richiesta è un appello a non archiviare questa vicenda come un incidente inevitabile, ma a vederla come un’occasione per riflettere su come le forze dell’ordine debbano operare nel rispetto dei diritti fondamentali.

Non si tratta di puntare il dito contro chi veste una divisa, né di sminuire l’importanza cruciale del loro lavoro per la sicurezza collettiva. È proprio per riconoscere la delicatezza e la responsabilità del loro compito che è necessario interrogarsi su ciò che è accaduto e su come evitare che simili episodi si ripetano. La formazione, le procedure e il senso di proporzione devono essere elementi centrali del dibattito. Come osserva Roberto Cornelli nel suo saggio La forza di polizia, queste vicende richiedono un’analisi che superi sia l’indignazione che le difese automatiche, cercando soluzioni che garantiscano giustizia e rispetto reciproco.

Nel clima attuale, episodi di uso sproporzionato della forza sembrano diventare sempre più frequenti, alimentando un senso di divisione tra i cittadini e le istituzioni. Le manifestazioni seguite alla morte di Ramy, con scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine, riflettono una polarizzazione che non può essere la risposta a questo dramma. La morte di un ragazzo non deve trasformarsi in un simbolo di conflitto, ma in un punto di partenza per ripensare il rapporto tra Stato e cittadini.

Ramy Elgaml non è solo una vittima. La sua storia ci interroga su cosa significhi davvero vivere in una democrazia. È un richiamo alla responsabilità, alla necessità di uno Stato che sappia agire con umanità e rispetto, e alla consapevolezza che ogni vita, a prescindere dalle circostanze, ha un valore inviolabile. Non possiamo permettere che la sua morte scivoli nell’oblio senza trarne una lezione profonda e condivisa.