Il sociologo francese Crozier nella sua opera pubblicata nel 1963 “ il fenomeno burocratico” espone una critica radicale al concetto weberiano di burocrazia. Il metodo di diagnosi e di intervento a livello operativo è quello dell’analisi strategica dei comportamenti burocratici, osservando le strategie che gli attori, individuali e collettivi, adottano nei quotidiani rapporti reciproci dentro il quadro delle regole formali dell’ organizzazione.
Al concetto di strategia è strettamente connesso quello di potere: in un sistema burocratico, dove per definizione tutto deve essere impersonale e imprevedibile, il potere non appare tanto legato, come sosteneva Weber, alla possibilità legittimata di ottenere obbedienza ad uno specifico comando, quanto alla capacità di un soggetto di fare propri e riuscire a difendere dei margini, sia pur minimi, di libertà di scelta.
Se una burocrazia funzionasse secondo i regolamenti, indica Croizer, “il comportamento di ogni membro dell’organizzazione diventerebbe del tutto prevedibile” e la discrezionalità sarebbe soppressa non soltanto nei ruoli esecutivi ma anche nei ruoli collocati nella più alta scala gerarchica. Questa è però una realtà utopica perché esistono sempre margini dovuti all’imponderabile, situazioni in cui le procedure non sono sufficienti e soprattutto gli esseri umani non sono sempre riconducibili a comportamenti predeterminati.
Nello scacco che l’uomo, inteso come “mente, progetto e libertà”, dà al modello burocratico e nella rivincita che si prende tra le pieghe del sistema, Croizer fonda una sociologia dell’iniziativa umana nelle grandi organizzazioni: l’imprevedibilità è libertà, ma anche potere come scelta, iniziativa, strategia, possibilità di influenzare e condizionare il comportamento altrui al di fuori delle regole previste. Assume allora centralità motrice l’idea che il vero potere è servizio, strumento geniale per creare strade di dialogo, di incontro, oltre i muri e le barriere costruite dal sistema tecnocratico che burocratizza e lenisce la capacità di critica e di osservazione creativa della complessità.
La via della cultura tesa a far uscire le persone dall’ anestesia percettiva che favorisce l’eterodirezione e il controllo esterno, si sostanzia nel patto per il futuro del pianeta e l’adattamento dell’umanità al cambiamento. Come ricordato nel Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura UNESCO, del 2 giugno 1980 di Giovanni Paolo II c’è un patto quando si forma un consenso fondato sulla parità e sull’uguaglianza fra i partecipanti nella convinzione che «il fatto culturale primario e fondamentale è l’uomo spiritualmente maturo, vale a dire pienamente educato, l’uomo capace di educare se stesso e di educare gli altri». Un vocazione al pensare, al riflettere, a formulare domande di senso, una coscienza critica che vede nella consapevolezza di essere tutti membri dell’ unica famiglia umana il detonatore per la rivoluzione della fratellanza e della tenerezza.
Come si legge nell’ Instrumentum Laboris realizzato per il Patto Educativo Globale “ Le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame – regna un silenzio internazionale inaccettabile.
In tale prospettiva di sguardo per superare la logica dello scontro tra blocchi, proprio del dualismo manicheo, dell’ io aumentato artificialmente, senza limiti, è possibile ricorrere al paradigma della fratellanza creativa, nella quale è generativa la logica poliedrica del noi, della sinfonia delle diversità, la co-costruzione sinodale ed armonica di una relazione internazionale multilaterale fondata sulla reciproca conoscenza.
La fraternità è la categoria culturale afferente alla dimensione ontologica dell’uomo e della donna, ovvero alla sua essenza relazionale, che fonda e guida paradigmaticamente il pontificato di Francesco.
Immetterla nei processi educativi, come è suggerito nel suo Messaggio, e nei processi economici, significa riconoscerla come un basilare dato antropologico a partire dal quale innestare tutte le principali e positive “grammatiche” della relazione: l’incontro, la solidarietà, la misericordia, la generosità, la volontà di cooperazione, l’alleanza, il servizio alla comunità, l’impegno per la pace; ma anche il dialogo, il confronto e, più in generale, le variegate forme della reciprocità aperta e trasparente che si oppongono ai codici mafiosi e criminali, così come ai fondamentalismi terroristici e alle lobbies dei conflitti armati e dell’economia speculativa propria del paradigma tecnocratico.
Si tratta di “grammatiche” relazionali costitutive della diplomazia della cultura tese ad accompagnare la vocazione alla custodia fraterna dove il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, eguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace attiva, vivente e riconciliante nelle varie aree di conflitto.
“L’umanità intera, nel ricevere la vita, si scopre legata nel vincolo della fraternità, che quindi si manifesta come il principio che esprime la strutturale realtà dell’essere umano”
Se possiamo scegliere i nostri amici o alcuni nostri compagni, di certo non possiamo scegliere i nostri fratelli o le nostre sorelle, in quanto non siamo noi gli autori della loro esistenza. La fraternità non esprime – in primo luogo – un dovere morale, bensì l’oggettiva identità del genere umano e dell’intera creazione. La progettazione delle economie, la cultura della legalità, il diritto internazionale in genere e in particolare quello umanitario, sono tutte strutturazioni comunitarie della coscienza di sé e del significato dell’intera creazione che le culture trasmettono nel tempo attraverso il patto tra le generazioni: esse sono quindi de essentia et iure esperienze che appartengono alla fraternità quale sorgente dell’assunzione umana cosciente, personale e comunitaria del puro fatto di esistere in un territorio del pianeta.
Fraternità che, con il linguaggio dei diritti umani, indica la comunità internazionale formata dai soggetti umani, popoli e persone, oltre che dagli Stati e dalle altre entità istituzionali, nel sentiero segnato dall’etica dell’abitare la terra quale casa comune di “tutti i membri della famiglia umana”.
L’espressione famiglia umana, ricorrente nei testi giuridici internazionali a partire dalla Dichiarazione universale del 1948 è portatrice di un significato morale, sociale e politico molto più pregnante e impegnativo del termine “umanità” o “genere umano”. Dire famiglia umana significa infatti evocare una discendenza comune, fratellanza, appartenenza comune, esigenza di unità, impegno di cooperare per il bene comune.
L’odierna cultura dello scarto, in profondità, scaturisce proprio dal reiterarsi del rifiuto della fraternità quale elemento costitutivo dell’umanità: un rifiuto che ne svela la radicale opposizione alla cultura della legalità e che è significativamente strutturale ai paradigmi criminali e mafiosi, così come ai fondamentalismi terroristici, al paradigma tecnocratico e alla retorica della guerra.
Pertanto come affermato nella Lettera Enciclica Laudato Si’ «molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti». È proprio in questa direzione, infatti, che papa Francesco aveva impostato anche il suo primo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio 2014 non a caso intitolato Fraternità, fondamento e via per la pace. È quindi necessario costruire insieme, a servizio della vita, cammini e ponti di una legalità che sia sempre più manifestamente espressione della custodia fraterna, dove uomini e donne, di qualsiasi ceto, cultura, nazionalità ed esperienza religiosa, ognuno per la parte di propria competenza possano e debbano “irradiare” gli anticorpi della diplomazia delle culture.