Nuove forme di abuso verso persone e gruppi sociali non cessano di manifestarsi anche nei nostri giorni in diverse aree del pianeta e sotto variegate e nuove forme rispetto al passato.
La Chiesa ha oggi celebrato la memoria di S. Pietro Claver gesuita catalano missionario in Colombia nel XVII secolo.
A Cartagena, dove operava pastoralmente, sbarcavano migliaia di schiavi neri, quasi tutti giovani: ma invecchiavano e morivano presto per la fatica e i maltrattamenti.
Il giovane sacerdote della compagnia di Gesù scelse di stare con loro per nutrire e per curare, imperturbabile ed efficiente anche nelle situazioni più disgustose.
A questa gente che non aveva nulla e che era considerata il nulla, insieme al soccorso offrì il rispetto.
Si sforzò di risvegliare in ognuno il senso della sua dignità, senza il quale non potrebbe parlare di Dio e del suo amore.
L’occasione liturgica offre lo spunto per una riflessione sulla schiavitù, un riprovevole fenomeno ancora ininterrotto.
Nel 1924 la Società delle Nazioni creò la Commissione temporanea che fece avanzare la lotta legale contro il ‘lavoro forzato’ in tutte le sue forme.
La creazione delle Nazioni Unite nel 1945 e poi l’adozione da parte dell’Organizzazione internazionale del lavoro della Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato nel 1957 incoraggiarono sempre più paesi a vietare la schiavitù.
Oggi, praticamente nessuna società pratica quella che si chiamava schiavitù nel 1680.
Tuttavia, circa 25 milioni di persone subiscono ancora condizioni di vita vicine alla schiavitù.
Se gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di cotone delle ricche famiglie delle colonie americane erano “un capitale” per i padroni, gli schiavi del nostro tempo sono prodotti ‘usa e getta’.
Gli schiavi di oggi vengono utilizzati per alcuni anni o addirittura mesi, per un compito ingrato che non vale nemmeno uno stipendio, poi sono scartati e ripudiati non appena non sono più necessari.
Il comune denominatore di queste varie forme di schiavitù è la violenza fisica e morale che mantiene prigioniera una popolazione vulnerabile, povera e indebolita dalla globalizzazione e dalla violenza.
Questa popolazione è grande e diversificata e la loro schiavitù può assumere forme molto diverse.
Possiamo distinguere due sistemi principali: la schiavitù per debito e la schiavitù “a contratto”.
La schiavitù per debito è il risultato di una tecnica di credito che consiste nel fatto che una persona si mette in garanzia per un prestito.
Se il prestatore ritiene che il suo prestito sia a rischio di non essere pagato, può ridurre questa “persona-garanzia” in schiavitù e farla lavorare fino a quando il debito non viene rimborsato.
I creditori senza scrupoli ne approfittano per far lavorare la persona e i suoi discendenti molto tempo dopo che il debito è stato rimborsato.
È nel sud-est asiatico che si trovano più schiavi in questa situazione.
Intere famiglie sono a volte mantenute in servitù, svolgendo compiti estenuanti nell’agricoltura o nell’artigianato.
La schiavitù “a contratto” è ancora più sorprendente: i lavoratori lo fanno volontariamente.
I reclutatori fanno propaganda in villaggi poveri promettendo un lavoro ben pagato ma lontano da casa.
Coloro che hanno più bisogno di soldi li seguono, spesso per ritrovarsi isolati in un villaggio di lavoratori forzati senza altra possibilità che aspettare la buona volontà dei proprietari per tornare a casa.
Troviamo questa forma di schiavitù nei paesi sviluppati, in particolare in Giappone, dove ogni anno da 40 a 50 000 donne straniere vengono ridotte in schiavitù come prostitute, oppure nelle grandi capitali europee dove le ragazze assunte ufficialmente come colf vengono in realtà private dei loro documenti e ridotte in schiave domestiche.
Ogni nuovo scandalo sembra mostrare che il divieto legale della schiavitù non è sufficiente per impedire alle persone vulnerabili di essere trasformate in schiave.
Nonostante le numerose lotte degli ultimi due secoli e l’illegalità quasi universale della schiavitù di possesso, ci sono ancora schiavi.
Gli esseri umani ridotti in schiavitù sono ancora più numerosi e senza dubbio più violentati e cosificati di prima.
Le leggi non sono sufficienti a ridurre la schiavitù, è necessario mettere in atto dispositivi per raggiungere le persone ridotte in schiavitù e farle uscire da quella condizione.
Spesso i luoghi di produzione che usano gli schiavi sono aree di non-diritto, di illegalità, dove le forze dell’ordine non intervengono più o sono corrotte.
Il cambiamento è tuttavia possibile.
In Brasile, il governo Lula adottò già nel 2003 misure anti-corruzione e anti-schiavitù, organizzando commissioni incaricate di indagare e liberare le persone man mano che venivano scoperte.
La liberazione è un passo avanti positivo, ma è anche necessario lavorare sulle condizioni economiche che spingono i produttori a far lavorare gli schiavi e le persone ad accettare le loro condizioni.
Ciò passa attraverso la diffusione di informazioni sulla schiavitù moderna, la lotta contro la corruzione e il crimine organizzato, la liberazione degli schiavi e la costruzione di nuove comunità forti e slaveproof, “che resistono alla schiavitù”, dove i cittadini conoscono i loro diritti e non (ri)diventeranno schiavi.
Gli argomenti in questo senso sono che la madre surrogata o gestatrice subisce restrizioni alla sua libertà di agire, anche nella sua vita personale; il bambino è oggetto di un contratto che sarà consegnato a pagamento, i gameti possono eventualmente essere acquistati.
Si sviluppano in questo modo nuove forme di schiavitù propiziate dalle recenti acquisizioni della tecnica e da irrisolti problemi di diseguaglianza e ingiustizia sociale.
Parlare e riflettere su queste tematiche è un primo passo per combattere la schiavitù.
Ignoranza e indifferenza sono i primi varchi attraverso i quali la schiavitù avanza.
Deterrenza e solidarietà sono invece i primi varchi di uscita dalla schiavitù con un concorso globale di forze sociali e strumenti legislativi.