Il giorno dopo l’arrivo dei ribelli a Damasco, una marea di persone si è riversata lungo il sentiero frastagliato che conduce alla famigerata prigione di Sednaya, simbolo del terrore e delle atrocità del regime di Bashar al-Assad. Migliaia di siriani, spinti dalla speranza di ritrovare i propri cari scomparsi, si sono affollati attraverso gli imponenti cancelli di metallo, inondando le sale fiancheggiate di celle e gli uffici alla ricerca di risposte che per anni sono rimaste loro negate.
Una corsa contro il tempo e il silenzio
Dentro la prigione, uomini armati di mazze e picconi stanno cercando celle segrete, convinti che esistano prigionieri nascosti nei sotterranei. Una donna, con la fotografia del figlio scomparso in mano, supplica chiunque passi: “Lo hai visto? Per favore, dimmi che è vivo.”
Le voci su una sezione sotterranea conosciuta come il “Red Wing” – un luogo dove si suppone siano detenuti ancora più prigionieri – continuano ad alimentare l’angoscia collettiva. Decine di persone stanno scavando nei pavimenti, cercando disperatamente segni di vita. “Ci sono persone qui,” grida una madre, indicando un muro di cemento. “Posso sentirle!”
Sednaya, simbolo dell’orrore
Per anni, il nome di Sednaya ha evocato un terrore silenzioso. Amnesty International l’ha definita un “mattatoio umano”: un luogo dove decine di migliaia di prigionieri sono stati torturati, affamati, privati di acqua e dignità, e spesso giustiziati in impiccagioni di massa.
Con il regime crollato, emergono orrori ancora più profondi. Martedì, i ribelli hanno riportato all’obitorio di Damasco i primi 38 cadaveri trovati nella prigione. I corpi appaiono scheletrici, mutilati, segnati da cicatrici indicibili. Alcuni sembrano morti solo pochi giorni fa, mentre altri, decomposti, portano i segni di anni di violenze.
Le famiglie, alla ricerca di risposte
All’obitorio dell’ospedale Al-Moujtahed, il caos regna sovrano. Centinaia di persone si accalcano per vedere le foto dei corpi caricati su un canale Telegram o si fanno strada tra i cadaveri stipati nei sacchi e nei frigoriferi. “È mio figlio?” chiede una donna, sollevando un lembo di un sacco nero. La speranza di ritrovare i propri cari vivi si mescola al terrore di riconoscerli tra i corpi senza volto.
Per molti, la speranza dura da anni, alimentata dalle bugie del regime che chiede tangenti per rivelare informazioni. “Dicevano che mio figlio era morto, ma non ci ho mai creduto,” racconta Aziza Mohammed Deek, madre di uno dei tanti scomparsi.
Un Paese ferito, alla ricerca di un futuro
Con la caduta del regime di Assad, la Siria si trova di fronte a una dolorosa resa dei conti. I siriani stanno iniziando a confrontarsi con l’apparato di tortura e repressione che ha oppresso il paese per oltre sei decenni. Tuttavia, per molti, le risposte potrebbero non arrivare mai.
“Tutto ciò che volevamo erano i nostri figli, vivi o morti,” dice Alya Saloum, una madre che da 11 anni cerca suo figlio. “Ora non ho più speranza. È tutto finito.”
Mentre la Siria tenta di ricostruire un futuro, le cicatrici di Sednaya e di altre prigioni del regime di Assad rimangono aperte. Il popolo siriano ha ritrovato la libertà, ma il prezzo da pagare è altissimo. E per molti, la domanda rimane: i loro cari potranno mai tornare a casa?