Gli sviluppi delle neuroscienze affrontano oggi il tema delle dipendenze.
La nostra società è in preda a varie forme di “addizione”.
La più classica e temuta, per i suoi risvolti anche criminali, è l’utilizzo delle sostanze stupefacenti.
Il dilemma riguarda il livello di autodeterminazione del soggetto nell’uso delle droghe.
La ricerca ora mostra che la dipendenza non significa essere completamente soggetti a impulsi irresistibili o fare scelte totalmente libere.
Gli effetti della dipendenza sul processo decisionale sono complessi.
Comprenderli può aiutare i responsabili politici, il personale sanitario, gli assistenti sociali e le famiglie delle vittime a facilitarne il recupero.
Le affermazioni secondo le quali le persone con dipendenza non sono in grado di autocontrollarsi sono smentite dai fatti.
La dipendenza è assoluta?
Le persone dipendenti da droghe spesso ne nascondono il consumo, ne ritardano l’uso, consapevoli di ciò che stanno facendo
I tossicodipendenti accolgono scelte egocentriche vivendo in un perenne conflitto interiore.
La dipendenza, infatti, allontana spesso dagli affetti più cari, dal lavoro, nuoce alla salute, conduce alla malattia o alla prigione.
La maggior parte delle persone che provano le droghe non diventano dipendenti, nemmeno da oppioidi o metanfetamine, il che suggerisce che fattori diversi dalla semplice esposizione a una droga possono contribuire alla dipendenza.
La maggior parte dei tossici hanno altri disturbi psichiatrici: infanzia traumatica o entrambi.
Quasi il 75% delle donne con dipendenza da eroina sono state abusate sessualmente da bambine
Questi dati implicano che le vulnerabilità genetiche e ambientali influenzano il rischio di addizione.
In che modo quindi la dipendenza influisce sulla scelta del consumo di droga?
I neuroscienziati e i filosofi stanno iniziando a convergere sulle risposte, il che potrebbe aiutare a rendere la politica più umana e più efficace.
Il ruolo del cervello
Il cervello umano può essere visto come un “ricettacolo di previsioni”, calcola costantemente ciò che è più probabile che accada dopo e se sarà benefico o dannoso.
Man mano che i bambini crescono, le loro emozioni e i loro desideri vengono calibrati per guidarli verso ciò che il loro cervello prevede soddisferà i loro bisogni sociali e fisici.
Idealmente, man mano che ci sviluppiamo, otteniamo più controllo e ottimizziamo la capacità di scegliere.
Ma ci sono molti modi in cui questi vari processi possono funzionare male e degenerare nella dipendenza alterando l’equilibrio tra scelte e benefici.
Tradizionalmente, i ricercatori si sono concentrati su come cambia l’esperienza della droga durante la dipendenza.
All’inizio, usarla è divertente, forse eccitante, forse rilassante. Risolve un problema come l’ansia sociale o l’assenza di piacere.
Poi, però, diventa meno efficace: è necessario aumentare le dosi per ottenere gli effetti desiderati. Man mano che la dipendenza diventa radicata, la voglia di droghe si intensifica, ma il piacere dell’uso si assottiglia.
La dipendenza, allora, è soprattutto un problema di “volizione” fragilizzata e sganciata dalla cognizione del tempo.
Questo spiega perché durante la dipendenza, le persone tendono anche a dare la priorità alle gratificazioni a breve termine, rispetto ai traguardi a lungo termine.
La logica “del meglio l’uovo oggi che la gallina domani”, spiega perché le persone con infanzie caotiche e redditi precari sono a più alto rischio: quando un futuro migliore sembra improbabile, è ragionevole ottenere tutta la gioia possibile nel presente. Carpe diem.
Durante la dipendenza anche la coscienza viene alterata, i pensieri disperati su se stessi e sul futuro, così come le conseguenze negative dell’uso di droga, sono ridotti al minimo.
I farmaci sono sopravvalutati come un modo per mitigare l’angoscia; tutto il resto è sottovalutato.
Il risultato è un equilibrio instabile, che, il più delle volte, porta a sballarsi.
Questa teoria è utile per individuare chi ha maggiori probabilità di diventare tossicodipendente e cosa determina maggiori probabilità di recupero.
Il condizionamento sociale
Fattori di rischio son quindi la povertà, un’infanzia traumatica e la malattia mentale.
A questo aggiungiamo gli effetti collaterali da stress eccessivo e pensieri negativi su se stessi.
I fattori legati al recupero – come il sostegno sociale e l’occupazione – possono compensare i pensieri distorti e il giudizio benevolo sulle droghe.
Le persone, infatti, fanno scelte migliori quando hanno accesso a opzioni migliori, quando c’è una via di fuga sostenibile dal dramma personale.
Questo è il motivo per cui gli approcci punitivi sono spesso inefficaci: causano più dolore alle persone tossicodipendenti e non disincentivano l’uso di droghe.
La punizione non insegna nuove possibilità per decisioni migliori.
Le case di recupero
In questi giorni è in corso un dibattito mediatico con esposto in Procura sui metodi adottati dalla comunità di recupero Shalom in una casa del bresciano.
Secondo una giornalista d’inchiesta infiltratasi come volontaria, sembra che gli ospiti subissero vessazioni per dissuaderli dall’uso della droga.
In attesa di chiarimenti giudiziari, è già evidente la disperazione delle famiglie che scaricano il parente tossicodipendente e l’inadeguatezza dello Stato sociale.
Mettere in atto il principio di sussidiarietà affidando a strutture religiose come Shalom la cura di persone tossicodipendenti è una resa di Stato.
Non esiste, infatti una ricetta o un protocollo standard e ben congegnato per queste situazioni e per il reinserimento nella società di tanti sfortunati.
Responsabilità senza colpa?
Quanto alle responsabilità personali del drogato, Hanna Pickard, illustre professoressa di filosofia e bioetica alla Johns Hopkins University, parla di “responsabilità senza colpa”.
Ammette, cioè un certo controllo del tossicodipendente sulle proprie decisioni.
Questo, tuttavia, non significa che meriti la gogna o la punizione per una colpa.
La deterrenza a mezzo punizione o umiliazione non migliorerebbe le cose
Occorre piuttosto fornire alle persone, sia le competenze che le risorse di cui hanno bisogno per cambiare vita.
Occorre avere compassione, ma fermezza nel responsabilizzarle per promuovere il loro recupero.
Questo approccio ha una validità terapeutica e non rientra nel merito di eventuali giudizi su crimini legati alla dipendenza.
La neuroscienza scopre che inquadrare il comportamento di dipendenza come una malattia cerebrale involontaria riduce la tendenza a incolpare le persone per questo.
Questa prospettiva non risolve necessariamente lo stigma o il desiderio di punire i drogati.
Vedere gli individui come se non avessero autonomia li disumanizza e fa sì che gli altri vogliano rinchiuderli nel tentativo di proteggere la società.
Il concetto di “responsabilità senza colpa” offre un modo per aggirare questo: le persone con dipendenza hanno un’agenda, ma è compromessa. Questo non è dovuto solo alla dipendenza.
Hanno meno self control sotto lo stress della precarietà economica, sociale e affettiva.
Per riprendersi, le persone con dipendenza hanno bisogno sia di nuove competenze che di un ambiente che fornisca alternative migliori.
L’uso compulsivo di droghe è spesso una soluzione facile ed evasiva a una vita in cui il significato appare fuori portata realizzativa.
È proprio per questo che le neuroscienze, pur approfondendo e spiegando i meccanismi della dipendenza a livello neurologico, non ne stabiliscono pienamente la cura.
Recuperare la visione integrale dell’uomo
Per il pieno recupero psichico, fisico e morale del tossicodipendente occorre una visione olistica sull’uomo e un’ontoterapia.
Il temperamento tempera la temperanza.
Ritornando al dibattito sulla comunità di recupero bresciana Shalom “accusata” di far pregare dei giovani tossicodipendenti, viene da pensare a Kierkegaard quando diceva: “la preghiera non cambia Dio, ma cambia colui che prega”. Vogliamo toglierci anche questa possibilità?