Il brusco strappo tra Trump e Zelensky alla Casa Bianca ha segnato la fine di un’intesa che avrebbe potuto ridefinire gli equilibri geopolitici. Il nodo centrale non era il proseguimento del sostegno militare all’Ucraina, che Washington aveva già deciso di interrompere, ma il modo in cui gli Stati Uniti avrebbero potuto rientrare dell’investimento fatto nella guerra attraverso lo sfruttamento delle terre rare.
La logica americana era chiara: niente più aiuti senza un ritorno concreto. Le ingenti riserve minerarie ucraine, tra cui litio, titanio e scandio, sarebbero dovute diventare la moneta di scambio per ripagare l’assistenza ricevuta negli ultimi anni. Ma l’elemento più dirompente di questo accordo era l’apertura a una collaborazione con la Russia, un’inversione netta rispetto alla politica di contenimento adottata dall’amministrazione Biden. Washington sembrava pronta a voltare pagina, trasformando il conflitto da una questione di sicurezza internazionale a un dossier economico da chiudere al più presto.
Ora che l’intesa è saltata, la situazione è diventata ancora più instabile. Trump e Vance hanno mostrato chiaramente che la priorità degli Stati Uniti non è più il sostegno incondizionato a Kiev, ma piuttosto il recupero delle risorse investite in una guerra che non si vuole più combattere. Senza la leva economica garantita dall’accordo sulle terre rare, Washington potrebbe ora accelerare il disimpegno, lasciando Zelensky senza le certezze che finora lo avevano sorretto.
La Russia, dal canto suo, osserva la situazione con attenzione. L’idea di una joint venture con gli USA sulle risorse minerarie ucraine avrebbe rappresentato per il Cremlino un enorme successo strategico, perché avrebbe significato non solo un riconoscimento implicito delle conquiste territoriali, ma anche una prima apertura verso la normalizzazione dei rapporti economici con l’Occidente. Con gli Stati Uniti fuori dai giochi, Mosca potrebbe ora tentare di consolidare il controllo sulle aree ricche di minerali nel Donbass e nelle zone occupate, sfruttandole direttamente senza dover condividere i proventi con nessuno.
L’Europa, nel frattempo, si trova in una posizione sempre più complicata. Se gli Stati Uniti si disimpegnano, per i governi europei si apre un dilemma cruciale: continuare a sostenere l’Ucraina con sempre meno risorse e con il rischio di trovarsi isolati, oppure iniziare a considerare una riapertura nei confronti della Russia, nella speranza di stabilizzare il continente e ripristinare i flussi commerciali, soprattutto energetici. La Germania, che ha subito un duro colpo dalla fine delle importazioni di gas russo, potrebbe essere tra i primi Paesi a spingere per un approccio più pragmatico. Anche in Francia e in Italia si avverte una crescente insofferenza per il costo delle sanzioni e delle forniture militari a Kiev, con settori economici che iniziano a chiedere un ripensamento.
Tutto questo mette Zelensky in una posizione sempre più fragile. Senza la garanzia di nuovi aiuti da parte di Washington, la sua capacità di mantenere il fronte interno e di resistere alla pressione russa potrebbe diminuire rapidamente. La guerra, che fino a oggi è stata combattuta con il sostegno occidentale, potrebbe trasformarsi in una partita completamente diversa, in cui l’Ucraina viene gradualmente spinta verso una soluzione negoziata, anche a costo di cedere territori e risorse.
Il fallimento dell’accordo sulle terre rare ha accelerato un processo che era già in atto. L’America di Trump non vuole più investire in un conflitto senza prospettive chiare di vittoria, e preferisce puntare su una diplomazia degli affari piuttosto che sulla strategia del confronto. Se questo porterà a un avvicinamento con Mosca o a un nuovo assetto dell’ordine globale, lo vedremo nei prossimi mesi. Quel che è certo è che il mondo ha appena assistito a una svolta che cambierà il futuro dell’Ucraina e delle relazioni internazionali per gli anni a venire.