L’ennesima battuta d’arresto per il progetto del governo Meloni di trasferire i migranti in Albania arriva dalla Corte d’Appello di Roma, che ha deciso di non convalidare i trattenimenti dei 43 migranti rinchiusi nei centri allestiti dall’Italia a Gjader. Non solo: ha rimesso la questione alla Corte di giustizia europea, confermando la liberazione immediata dei richiedenti asilo, che saranno riportati a Bari su mezzi della Guardia Costiera. Una bocciatura sonora, la terza in pochi mesi, che evidenzia la fragilità giuridica di un piano più propagandistico che efficace.

Una strategia fallimentare: terza sconfitta per il Viminale

Non è la prima volta che i giudici si esprimono contro l’esperimento albanese. Già a ottobre e novembre, le corti italiane avevano ritenuto illegittimi i trattenimenti, ordinando il rientro in Italia dei migranti trasferiti a Gjader. Questo nuovo stop conferma un dato chiaro: il governo ha cercato di forzare la mano con un progetto che non regge al vaglio del diritto, italiano ed europeo.

Il Viminale ha insistito nel portare avanti il piano nonostante una sentenza della Cassazione che, pur riconoscendo al governo il potere di definire i Paesi sicuri, ha ribadito che spetta ai giudici verificare caso per caso. Il principio cardine della protezione internazionale, infatti, è che un Paese possa essere considerato sicuro solo se lo è per tutti e in ogni sua parte, come già stabilito dalla Corte di Giustizia Europea il 4 ottobre 2024. Un dettaglio che rende il trasferimento coatto dei migranti un’operazione giuridicamente traballante.

Un accanimento politico che si scontra con il diritto

L’idea di deportare i migranti in un Paese terzo, con il pretesto di accelerare le procedure e aggirare le garanzie previste sul suolo italiano, ricalca modelli già bocciati in altri contesti europei. Il progetto era stato lanciato con grande enfasi dalla premier Giorgia Meloni e dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi come soluzione innovativa alla gestione dei flussi migratori. In realtà, si è dimostrato un boomerang: ogni tentativo di applicarlo è stato bloccato dai tribunali, mettendo in luce l’incompatibilità con il quadro normativo europeo.

Le sentenze hanno chiarito che non è possibile ridurre il diritto d’asilo a una questione burocratica: la Commissione territoriale aveva già respinto in blocco le richieste di protezione con la formula “manifestamente infondate”, ma i giudici hanno riconosciuto che i migranti avevano diritto a un esame più approfondito e a tempi congrui per presentare ricorso. Il limite di sette giorni imposto dal governo per impugnare il diniego, infatti, è stato giudicato incompatibile con il diritto alla difesa garantito dalla Costituzione, dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e dalle direttive UE.

L’Europa come arbitro della legalità

La questione è ora nelle mani della Corte di Giustizia Europea, che dovrà pronunciarsi sulla compatibilità del decreto governativo con le norme comunitarie. Il 25 febbraio è attesa una sentenza che potrebbe definitivamente smantellare il progetto albanese, sancendo che l’Italia non può eludere le proprie responsabilità scaricandole su un altro Stato.

Questa vicenda è un ulteriore segnale di come l’attuale governo cerchi di sfidare i principi dello Stato di diritto in nome di una linea dura sull’immigrazione, senza però fare i conti con i limiti imposti dalle leggi nazionali e internazionali. La strategia è chiara: costruire un nemico, quello dei migranti, e proporre soluzioni mediaticamente efficaci ma legalmente inconsistenti. Il problema è che, alla prova dei fatti, questo approccio si scontra con la realtà giuridica e con i vincoli dell’Unione Europea.

Un fallimento che pesa sulla credibilità dell’Italia

Oltre all’evidente impasse politica e giuridica, il caso albanese solleva anche un problema di credibilità per l’Italia a livello internazionale. L’accordo con Tirana, salutato come un modello esportabile, rischia di trasformarsi in un clamoroso autogol. L’Albania, partner storico e aspirante membro dell’UE, potrebbe trovarsi a gestire una patata bollente che mina il suo percorso di integrazione europea. Nel frattempo, l’Italia si espone al rischio di nuove condanne da parte della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con potenziali ripercussioni anche economiche.

Il governo Meloni si trova così davanti a un bivio: insistere su una strategia già bocciata tre volte, con il rischio di ulteriori sanzioni e tensioni diplomatiche, oppure prendere atto del fallimento e cercare soluzioni più sostenibili. L’ostinazione nel portare avanti un piano tanto fragile dal punto di vista legale rivela un corto circuito tra propaganda e realtà, con conseguenze che si riflettono non solo sulla gestione dell’immigrazione, ma sull’affidabilità delle istituzioni italiane nel rispetto dello Stato di diritto.