Un colpo alla nuca, poi giù in una fossa. Corpi ammassati come rifiuti, vite spezzate senza nome né giustizia. Il ritrovamento di due fosse comuni in Libia, a Jakharrah e Al Kufra, è solo l’ultimo capitolo di una tragedia che si consuma da anni nel silenzio assordante della comunità internazionale. Settantasei migranti liberati, almeno settanta cadaveri da identificare. Ma quanti altri rimangono sepolti nel deserto senza un volto, senza un’identità, senza una storia che qualcuno voglia raccontare?

La scoperta è avvenuta dopo un raid contro un’organizzazione di trafficanti di esseri umani, che gestiva un vero e proprio lager di torture e sevizie. Un sistema che prospera grazie alla complicità delle milizie locali, spesso legate a apparati governativi o a gruppi armati che si spartiscono il controllo delle rotte migratorie.

Non è solo una questione di criminalità organizzata. La Libia è un buco nero dei diritti umani, un limbo di violenze e morte alimentato dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell’Europa.

Una mattanza dimenticata

Il rapporto dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) parla chiaro: il 22% dei migranti e rifugiati morti o dispersi in Libia ha perso la vita in zone rurali, lontano da occhi indiscreti. Il deserto è il loro cimitero, le prigioni informali le loro camere di tortura. Non esistono cifre esatte, perché molti scompaiono senza lasciare traccia.

Le immagini delle fosse comuni dovrebbero suscitare indignazione, eppure la notizia scivola via rapidamente, come se fosse l’ennesimo dramma inevitabile. L’Europa e i governi occidentali guardano altrove, mentre i loro accordi con le autorità libiche finanziano forze di sicurezza colluse con i trafficanti.

Chi si indigna e chi tace

La scoperta delle fosse comuni ha scatenato la reazione dell’ONU e delle ONG. “Siamo profondamente sconvolti”, ha dichiarato l’OIM, che chiede una sepoltura dignitosa, il riconoscimento delle vittime e l’assistenza ai familiari. Belle parole, ma poi? Quale giustizia verrà garantita? Quali responsabilità verranno accertate?

Nel frattempo, le politiche migratorie europee continuano a stringere patti con chi gestisce i campi di detenzione e con le milizie che fanno il bello e il cattivo tempo sulle rotte dei migranti. L’orrore non è una sfortunata conseguenza del traffico di esseri umani: è il risultato diretto di un sistema che ha scelto di trasformare la Libia in un muro invalicabile, a qualsiasi costo.

Un sistema criminale che fa comodo a troppi

Kufra, al confine con Egitto e Sudan, è uno dei principali snodi del traffico di esseri umani. Su quella rotta torture, stupri, detenzione arbitraria e tratta sono all’ordine del giorno, come documentano da anni organizzazioni umanitarie e reporter indipendenti.

Eppure, nulla cambia. Perché? Perché questo sistema di morte fa comodo a troppi.

• Fa comodo ai governi europei, che vogliono bloccare le partenze a qualsiasi costo e delegano ai libici il “lavoro sporco”.

• Fa comodo alle milizie locali, che guadagnano con il traffico di migranti e con i finanziamenti ricevuti dai governi stranieri per “gestire” la situazione.

• Fa comodo a chi costruisce la narrazione securitaria, secondo cui il problema sono i migranti, e non il sistema criminale che li sfrutta e li uccide.

Una coscienza da seppellire?

Quante altre fosse comuni dovremo trovare prima di chiamare le cose con il loro nome? Non è un’emergenza umanitaria, è un crimine sistematico.

Chi oggi si indigna per queste esecuzioni dovrebbe chiedersi: come siamo arrivati a questo punto? Quanto è grande la nostra responsabilità collettiva?

Se chiudiamo gli occhi davanti a queste fosse comuni, significa che stiamo scavando anche noi. Non per seppellire corpi, ma per seppellire la nostra coscienza.