Ci sono anniversari che non dovrebbero essere solo commemorati, ma interrogati. Il 22 febbraio 2021, in un’imboscata nella Repubblica Democratica del Congo, venivano uccisi l’ambasciatore d’Italia Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista congolese Mustapha Milambo. Oggi, quattro anni dopo, le loro morti rimangono avvolte nel mistero, tra ipotesi inconcludenti, silenzi imbarazzanti e una giustizia che sembra più interessata a proteggere responsabilità scomode che a cercare la verità.

Ma Luca Attanasio non era solo un diplomatico. Era un uomo dal cuore grande, uno di quegli ambasciatori che non si limitano alle stanze delle trattative, ma che scendono nelle strade polverose, incontrano i bambini delle periferie, parlano con chi è dimenticato dalla politica. Era un uomo che metteva la sua posizione al servizio dei più deboli, denunciando le ingiustizie, i traffici di minerali che arricchiscono pochi e condannano alla miseria molti, l’occupazione silenziosa delle ricchezze africane da parte di interessi stranieri. E per questo, forse, dava fastidio.

Un convoglio senza protezione e un’operazione che fa troppe domande

Quel giorno, Attanasio e Iacovacci viaggiavano senza scorta armata, su un’auto non blindata, in un convoglio del Programma Alimentare Mondiale (PAM), che avrebbe dovuto garantire la sicurezza della missione umanitaria. Ma la loro presenza non era stata registrata nei documenti di viaggio, e così, i Caschi Blu dell’ONU non li scortarono. Una negligenza incredibile per un tragitto noto per la sua pericolosità.

Poi l’agguato: un gruppo di uomini armati blocca il convoglio, uccide subito Mustapha Milambo, poi trascina gli altri in un viottolo. Dopo pochi minuti, gli spari. Muore Attanasio, muore Iacovacci. Gli altri rimangono illesi.

Le autorità congolesi parlano di un tentato rapimento finito male, ma le prove raccontano un’altra storia:

• Gli assalitori erano lì già da due giorni, secondo testimoni del villaggio.

• Un convoglio identico era passato mezz’ora prima senza essere attaccato.

• Il check-point militare vicino era stato sguarnito proprio quel giorno.

• Le perizie balistiche dimostrano che Attanasio e Iacovacci sono stati colpiti da colpi provenienti dalla stessa direzione, a distanza ravvicinata.

Troppe coincidenze. Troppe domande senza risposta. Forse, l’ambasciatore non è stato un danno collaterale, ma l’obiettivo.

Un’indagine che si ferma, una giustizia che non vuole arrivare

L’inchiesta della Procura di Roma si è scontrata con muri di gomma e immunità diplomatiche. I due funzionari del PAM che organizzarono il viaggio, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, sono stati indagati per negligenza, ma poi prosciolti per difetto di giurisdizione, grazie all’immunità invocata dall’ONU. Un’ONU che non ha mai risposto davvero su cosa sia successo quel giorno.

Gli esecutori materiali, sei uomini arrestati in Congo, sono stati condannati a morte, poi all’ergastolo. Ma nessuno crede che siano i veri responsabili. Chi li ha mandati? Perché? Quale messaggio si voleva dare?

E mentre la verità viene sepolta sotto la burocrazia e l’indifferenza, la famiglia di Luca Attanasio continua a lottare. Il padre, Salvatore, ha dichiarato che non si fermerà fino a quando non verranno scoperti i mandanti. L’Italia, l’Europa, il mondo diplomatico? Hanno voltato pagina troppo in fretta.

Luca Attanasio: un ambasciatore diverso

Ma al di là della politica e della giustizia negata, il vero ricordo di Luca Attanasio è la sua testimonianza di vita.

Era un diplomatico che non si chiudeva nei salotti, ma che viveva tra la gente. A differenza di tanti colleghi, non si limitava a firmare protocolli, ma andava nei villaggi, negli ospedali, nelle scuole. Vedeva le ingiustizie e cercava di combatterle.

Sapeva che il Congo non è solo guerra e povertà, ma anche un paese sfruttato dai grandi interessi globali, dove le multinazionali saccheggiano giacimenti di coltan, diamanti e oro, lasciando solo miseria e conflitti. Sapeva che i bambini erano costretti a lavorare nelle miniere invece di andare a scuola, e con sua moglie, Zakya Seddiki, musulmana marocchina, aveva fondato Mama Sofia, un’associazione per aiutare le famiglie povere e dare un futuro ai più piccoli.

Un ambasciatore con un cuore grande, che con le sue figlie insegnava il valore del dialogo, della pace, dell’incontro tra culture diverse. Un uomo che non si è limitato a rappresentare l’Italia, ma l’umanità intera.

Un ricordo che deve diventare impegno

Oggi, il nome di Luca Attanasio è su ponti, strade, targhe commemorative. Ma non basta un nome inciso su una pietra per onorarlo. Bisogna chiedere la verità, pretendere giustizia. Bisogna continuare il suo lavoro.

Chi lo ha ucciso voleva far tacere la sua voce. Ma la sua testimonianza continua a parlare. Parla ogni volta che un bambino africano trova un aiuto, un’educazione, una speranza.

Il vero tributo a Luca Attanasio non è solo ricordarlo. È continuare a costruire il mondo per cui lui ha dato la vita.