M. Il figlio del secolo è un film che non si limita a raccontare la vita di Benito Mussolini, ma si addentra nelle pieghe più oscure del potere, della manipolazione delle masse e della violenza politica. Tratto dal romanzo di Antonio Scurati, il film si muove tra il rigore storico e la costruzione cinematografica, restituendo un ritratto del Duce che evita la mitizzazione e la demonizzazione semplicistica, offrendo invece una narrazione densa e stratificata.
L’opera si concentra su un periodo cruciale: la transizione di Mussolini da socialista rivoluzionario a fondatore del fascismo, un passaggio che avviene tra opportunismo e ferocia, tra intuizione politica e brutalità. Il film non si ferma a una semplice cronaca, ma esplora la dimensione filosofico-politica del fascismo nascente, svelando come il potere si costruisca su paure, ambizioni e, soprattutto, sulla capacità di raccontare una storia che la gente vuole ascoltare.
Fin dalle prime scene, il regista imposta il tono con un’estetica cupa, evocando il caos e l’instabilità della società post-bellica. La fotografia, fatta di contrasti netti e luci taglienti, immerge lo spettatore in un’Italia in bilico tra vecchio e nuovo, tra democrazia morente e dittatura imminente. La cinepresa non è mai neutrale: segue Mussolini da vicino, spesso con inquadrature strette che amplificano la sua presenza scenica, rendendolo un personaggio ingombrante, incombente, impossibile da ignorare.
Ed è qui che entra in gioco la prova attoriale di Luca Marinelli. L’interprete di Mussolini si cala nel ruolo con un’intensità magnetica, evitando la caricatura e restituendo un uomo pericolosamente carismatico, ossessionato dalla sua immagine e dalla sua missione. Il film sfrutta magistralmente la tecnica del monologo, elemento chiave della retorica mussoliniana, ma qui rielaborato in una chiave cinematografica potente. Ogni discorso non è solo un atto oratorio, ma una performance fisica: il corpo si irrigidisce, la voce si spezza e si ricompone, lo sguardo si accende di fanatismo o di dubbio. Non c’è solo l’uomo pubblico, ma anche il privato, l’insicurezza nascosta dietro la maschera dell’uomo forte.
Uno degli elementi più interessanti del film è l’uso dell’irruzione “buca lo schermo”. Mussolini non entra nelle scene in modo lineare o prevedibile: la sua presenza è improvvisa, quasi destabilizzante, come un’entità che spezza il flusso narrativo, imponendo la sua centralità. Il regista utilizza questa tecnica per rendere tangibile il suo dominio sulla scena e, metaforicamente, sulla Storia. È una scelta che ricorda il cinema di Bertolucci in Novecento, dove il potere non è solo un concetto astratto, ma un corpo che si impone, invade, schiaccia.
La dimensione filosofico-politica emerge con forza nella rappresentazione della manipolazione delle masse. Il film mostra come Mussolini capisca prima di altri che il potere non si conquista solo con la forza, ma con il controllo della narrazione. Ogni gesto, ogni parola è calcolata per costruire un’immagine mitica, capace di far presa su un popolo disorientato. Qui si avverte l’eco del pensiero di Gustave Le Bon sulla psicologia delle folle: il leader non convince con la logica, ma con l’emozione, con la capacità di incarnare un desiderio collettivo.
Ma il potere, come il film sottolinea con crudezza, si fonda anche sulla violenza. La nascita del fascismo viene raccontata attraverso le spedizioni punitive, le aggressioni agli oppositori, la trasformazione della politica in un’arena di scontro fisico. Non c’è un vero e proprio piano ideologico: il fascismo di Mussolini appare come un organismo che si adatta e si rafforza attraverso il conflitto, una macchina che prospera sul caos e sulla debolezza delle istituzioni liberali.
La scena della Marcia su Roma è particolarmente significativa. Il film la rappresenta non come una gloriosa presa del potere, ma come una messinscena, un gioco di forza che sfrutta la paura per ottenere il controllo senza una reale battaglia. È la perfetta dimostrazione di come il fascismo non abbia vinto perché più forte, ma perché gli altri erano troppo deboli per fermarlo. Questo aspetto richiama il pensiero di Hannah Arendt: le democrazie non crollano solo sotto la spinta dei dittatori, ma per la complicità e la passività di chi avrebbe il potere di resistere.
Anche la colonna sonora contribuisce a creare un senso di inquietudine crescente. I suoni della folla, i discorsi amplificati, i rumori dei passi e degli stivali sulle strade compongono un’atmosfera di tensione costante, un sottofondo di oppressione che si fa sempre più assordante.
M. Il figlio del secolo non è solo un film su Mussolini, ma un film sulla natura stessa del potere, sulla sua capacità di insinuarsi nelle crepe di una società fragile. È un’opera che invita a riflettere non solo sul passato, ma sul presente, su quanto sia facile per la storia ripetersi quando la paura e la rabbia diventano strumenti politici. Il film non fornisce risposte semplici, non cerca di riabilitare o condannare in modo banale, ma pone domande scomode: chi permette ai dittatori di esistere? Quanto del fascismo storico è ancora vivo nelle dinamiche del potere contemporaneo?
Un’opera potente, disturbante, necessaria.