La morte della seconda bambina per morbillo in Texas, una piccola di 8 anni, segna un punto critico nella crisi sanitaria che sta colpendo gli Stati Uniti. Con oltre 600 casi accertati dall’inizio dell’anno – di cui il 97% tra soggetti non vaccinati – l’epidemia in corso riporta tragicamente all’attenzione pubblica il rischio reale del morbillo in una società che, paradossalmente, ha già da decenni gli strumenti per prevenirlo.
A preoccupare non è solo il dato epidemiologico, ma il clima ideologico che ha accompagnato – e in alcuni ambienti amplificato – l’esitazione vaccinale. Le posizioni espresse da figure politiche di spicco, come Donald Trump e J.D. Vance, rivelano quanto la salute pubblica sia diventata terreno di scontro ideologico piuttosto che campo d’azione tecnico-scientifica.
Trump, in un recente incontro elettorale, ha ribadito l’idea che i vaccini «dovrebbero essere una scelta personale», senza affrontare la questione della responsabilità collettiva e della necessità dell’immunità di gregge. J.D. Vance, senatore dell’Ohio e nome in ascesa nei circoli conservatori, ha espresso tesi simili, spesso in sintonia con i sentimenti antivaccinisti di alcune frange evangeliche e libertarie. È una posizione che, dietro il richiamo alla libertà individuale, trascura la dimensione sociale della salute e l’obbligo etico di proteggere i più vulnerabili.
Nel mezzo di questa crisi, arriva ora anche la parziale ritrattazione di Robert F. Kennedy Jr., storico volto del movimento antivaccinista, oggi candidato indipendente alla presidenza. In un’intervista, Kennedy ha riconosciuto che «serve il vaccino contro il morbillo», ammettendo implicitamente che le sue precedenti posizioni – a lungo fondate su timori infondati e correlazioni mai dimostrate – hanno contribuito a un clima di sfiducia ingiustificata verso l’immunizzazione.
I dati parlano chiaro. Il morbillo è una malattia ad altissima contagiosità (indice R₀ tra 12 e 18) e può causare gravi complicazioni, tra cui encefaliti, polmoniti e, nei casi più gravi, morte. La prima bambina deceduta a febbraio, parte di una comunità mennonita contraria alla vaccinazione, aveva solo 6 anni. Il padre, in un’intervista, ha definito la sua morte “un segno di Dio”, rifiutando l’idea di una prevenzione umana. È difficile, per chi lavora nella sanità, accettare che in uno dei paesi più sviluppati al mondo si possa ancora morire di morbillo – non per mancanza di mezzi, ma per assenza di cultura scientifica.
Questo quadro evidenzia la necessità, oggi più che mai, di una comunicazione sanitaria chiara, autorevole e scientificamente fondata. Non basta fornire i dati: occorre contrastare attivamente la disinformazione, anche quando essa proviene da figure pubbliche. Occorre ricordare che la scienza medica non è un’opinione e che i vaccini sono tra le conquiste più efficaci della medicina moderna.
L’esitazione vaccinale non è solo un problema medico, ma anche politico e culturale. Va affrontata su più livelli, coinvolgendo educatori, comunità religiose, leader civili e politici. Ma soprattutto, va riaffermato un principio fondamentale: la libertà individuale trova il suo limite nel diritto alla salute altrui. Difendere il diritto dei bambini a non ammalarsi – e a non morire – non è un atto ideologico, ma un imperativo etico.
La comunità scientifica non può più restare neutrale di fronte a narrazioni distorte. Serve una nuova alleanza tra sapere, responsabilità pubblica e sensibilità sociale. Il vaccino contro il morbillo esiste da oltre mezzo secolo. Morire oggi per una malattia prevenibile è non solo una tragedia, ma un fallimento collettivo.