Durante il suo ultimo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scelto, ancora una volta, una retorica che mira a dividere il Medio Oriente in modo manicheo tra “buoni” e “cattivi”. Armato dei suoi soliti cartelli, ha cercato di catturare l’attenzione del pubblico internazionale con immagini semplicistiche e slogan ad effetto, che più si addicono a una lezione scolastica che a un complesso dibattito diplomatico. La risposta delle delegazioni presenti, tuttavia, è stata eloquente: molti rappresentanti si sono alzati e hanno abbandonato l’aula, un gesto che ha sottolineato quanto il discorso fosse percepito come polarizzante e privo di una reale apertura al dialogo.
Il Medio Oriente in verde e nero: i cartelli della discordia
Netanyahu ha illustrato la sua visione del Medio Oriente con due cartelli distintivi: il primo, tutto in verde chiaro, rappresentava Israele insieme a una serie di Stati arabi e all’India, uniti sotto il segno della “Benedizione” — pace, prosperità e commercio. Il secondo, completamente annerito, rappresentava invece l’“asse del male” composto dall’Iran e dai suoi alleati sciiti, che si estendeva fino al Libano attraverso Siria e Iraq. Una rappresentazione semplicistica e quasi caricaturale che cerca di dividere la regione in amici e nemici con un colpo di pennarello, ignorando completamente le molteplici sfumature politiche e gli interessi interconnessi che caratterizzano la realtà mediorientale.
Questa dicotomia verde-nero, così netta e apparentemente semplice, può essere efficace in termini comunicativi ma si rivela poco adatta a un contesto complesso come quello dell’Assemblea Generale. Piuttosto che rappresentare una visione realistica del Medio Oriente, Netanyahu ha proposto un “fumetto geopolitico” che riduce le relazioni tra gli Stati a un banale scontro tra bene e male. Se il suo intento era quello di attirare l’attenzione, ha sicuramente ottenuto il risultato sperato — ma forse non nel modo che avrebbe voluto.
La risposta delle delegazioni: un messaggio di dissenso
Mentre Netanyahu parlava con enfasi di “Benedizione e Maledizione”, numerose delegazioni hanno espresso il loro dissenso abbandonando l’aula. La scena è diventata particolarmente significativa quando la telecamera ha inquadrato la sedia vuota del rappresentante dell’Arabia Saudita proprio mentre il premier israeliano accennava alla possibilità di un accordo storico con Riyad. Un’immagine che ha sintetizzato l’isolamento crescente di Israele in un contesto internazionale in cui anche i suoi potenziali partner si mostrano riluttanti a essere associati a una retorica così polarizzante.
La protesta silenziosa di questi diplomatici è un segnale chiaro: molti Stati non sono disposti a lasciarsi coinvolgere in una visione così semplificata della realtà mediorientale. Anche se Netanyahu ha cercato di vendere la sua narrativa come una strada verso la “pace e prosperità”, il fatto che buona parte delle delegazioni — inclusi alcuni rappresentanti occidentali — abbia deciso di non ascoltare il discorso mostra quanto la retorica israeliana sia percepita come divisiva e priva di una reale apertura al dialogo.
Una visione che ignora la questione palestinese
Un altro aspetto critico del discorso di Netanyahu è stato il suo riferimento a una possibile normalizzazione delle relazioni con i Paesi arabi, una prospettiva che il primo ministro presenta come il culmine di un “nuovo Medio Oriente”. Tuttavia, questa promessa appare sempre più vuota alla luce delle sue stesse azioni. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha ribadito che qualsiasi accordo con Israele è subordinato alla nascita di uno Stato palestinese, una condizione che Netanyahu ha sistematicamente smantellato durante i suoi tredici anni al potere.
La sua insistenza sul fatto che Israele possa ottenere un accordo con Riyad senza fare concessioni sul fronte palestinese sembra dunque più un’illusione propagandistica che una reale possibilità diplomatica. Anche gli Stati Uniti, che in passato hanno sostenuto con forza l’iniziativa di normalizzazione, ora ammettono che un accordo è “improbabile” prima della fine del mandato di Joe Biden. Il tempo stringe, e Netanyahu sembra più che mai un leader in difficoltà, che cerca di mantenere viva una narrativa che però non trova più appoggi concreti.
Una retorica di forza che non nasconde le debolezze
Nel tentativo di presentare Israele come una potenza forte e resiliente, Netanyahu ha anche lanciato minacce dirette a Teheran: “Se ci attaccate, vi attaccheremo. Non c’è luogo in Iran che Israele non possa raggiungere”. Questo linguaggio muscolare è volto a dimostrare che Israele non esiterà a rispondere con la forza a qualsiasi provocazione, ma lascia irrisolta la domanda su quanto Israele possa realmente sostenere un conflitto su larga scala contro Hezbollah in Libano e contemporaneamente tenere sotto controllo Hamas a Gaza.
Mentre Netanyahu parlava di “riportare a casa” gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, l’esercito stesso avvertiva che il tempo per una soluzione efficace stava per scadere, con il rischio che molti prigionieri non tornino mai vivi. L’insistenza sulla “vittoria totale” su Hamas e sulla guerra aperta a Hezbollah si scontra con una realtà in cui il continuo uso della forza non sta garantendo risultati concreti, ma solo prolungando un conflitto che logora il tessuto sociale israeliano e minaccia di destabilizzare ulteriormente la regione.
Un discorso più divisivo che persuasivo
Il discorso di Netanyahu all’ONU avrebbe dovuto essere un momento per consolidare l’immagine di Israele come un partner forte e affidabile nel nuovo Medio Oriente, ma si è invece rivelato un’occasione mancata. La sua scelta di utilizzare cartelli per indicare “buoni” e “cattivi” tra gli Stati arabi e il tono bellicoso hanno finito per isolare Israele più che mai. Piuttosto che offrire una visione costruttiva, Netanyahu ha preferito puntare sulla divisione e sulla retorica dello scontro, allontanando anche i potenziali interlocutori.