Il Presidente Mattarella, nella giornata di commemorazione delle vittime di mafia, si è recato il 21 marzo 2023 a Casal di Principe.
L’Agro Aversano, specie negli anni Novanta, è stato teatro di attività illecite e faide perpetrate da organizzazioni di stampo mafioso.
In questa terra dove il sole sembra primaverile anche in inverno, il sangue di un prete martire sta fecondando ancora le coscienze di generazioni del seme della giustizia, della libertà e della pace.
L’ESECUZIONE DI DON PEPPE
Sono le 07:25 del mattino. A Casal di Principe un uomo entra nella chiesa di S. Nicola e chiede del parroco che non conosce. Il sacerdote si sta preparando in sacrestia per la S. Messa, ignaro che tra qualche istante sarà immolato a pochi passi dall’altare del santo sacrificio.
Con passo svelto e felpato, appena trafelato, Giuseppe Quadrano esplode cinque colpi in faccia al sacerdote. Don Peppe Diana muore all’istante.
È il 19 marzo 1994, solennità di S. Giuseppe, onomastico di Don Peppe.
PER CHI E PER CHE COSA È MORTO DON PEPPE?
La condanna a morte di Don Peppe è decisa in Spagna dal lupo Nunzio De Falco, boss del clan perdente ed esiliato in Andalusia dalle altre famiglie camorriste dei Casalesi. Il 13 dicembre 1990 una soffiata ai Carabinieri attribuita proprio al De Falco aveva prodotto la retata dei potenti camorristi Schiavone e Bidognetti con alcuni loro affiliati.
La vendetta non tarda, Casal di Principe raggiunge il record di omicidi di tutta Europa e nella sanguinosa guerra tra clan, don Peppe assiste alla scia ininterrotta e copiosa di sangue fino all’omicidio eclatante di Angelo Riccardo, un ventunenne colpito al posto di un camorrista.
È un evento che trasforma il suo ministero pastorale. È qui che comincia a salire sui tetti. Inizia a parlare coi ragazzi e cerca di rompere il muro di silenzio che avvolge il paese.
Nel Natale del 1991 Don Peppe Diana coinvolge alcuni parroci della vicaria a sottoscrivere e diffondere un volantino da lui concepito e dal titolo “Per amore del mio popolo”.
Don Peppe dice basta alla dittatura armata della camorra ed è consapevole che una nuova coscienza civica deve prendere il posto dell’indifferenza, della paura e dell’omertà.
Per amore del mio popolo non tacerò.
Il messaggio rivoluzionario, teologico e politico di Don Peppe diventa il suo testamento spirituale.
Il paese fibrilla. Un prete sa tutto. Don Peppe vede i suoi parrocchiani ragazzini crescere e poi affiliarsi ai clan camorristici.
Altri preti, anche quelli per bene, sono più defilati. Credono che debbano limitarsi all’ascolto delle confessioni e consolare mogli e madri disperate per lel vite spezzate prematuramente dei loro uomini.
La camorra cerca di delegittimare Don Peppe accusandolo di rifiutare funerali e sacramenti.
In realtà l’arguto parroco non vuole che le mafie utilizzino gli spazi sacri per celebrare i loro poteri.
Il patrocinio per la cresima, ad esempio, diventa per alcuni camorristi un rituale per significare affiliazioni e protezioni.
I De Falco hanno bisogno di un’esecuzione simbolica che dica a tutte le famiglie mafiose: “noi non ci facciamo sputare in faccia da questo prete, noi non ci facciamo dire queste cose, mettere in difficoltà da questo ragazzino”. I criminali capiscono che ammazzandolo arrivano carabinieri, poliziotti. Militarizzando il territorio i De Falco vogliono dimostrare che l’organizzazione vincente in realtà è debole. Un delitto compiuto dai De Falco perché la colpa ricada sugli Schiavone. Un disperato gioco delle tre carte di cui don Peppe diventa vittima inconsapevole.
Eliminare un uomo simbolo, un uomo che era portatore di valori positivi.
L’INFANGAMENTO
Come spesso accade, si cercano subito retroscena e segreti nella vita della vittima.
A Casale circolano strane voci. Si parla di sgarri ai clan, di armi, di donne…
La vita e la morte di Don Peppe Diana vengono ricoperte di fango per allontanare la verità e liquidare il suo omicidio. Come uno dei tanti. Nel giugno del 99. Appare un titolo del “Corriere di Caserta” che dice, testuale: “Don Peppe a letto con due donne”. È del marzo 2003, Il titolo sempre del “Corriere di Caserta” recita: “Don Beppe Diana era un camorrista”.
Entrambi questi titoli sono estratti da dichiarazioni di pentiti non verificate.
Quanto alle donne era stata trovata una foto assolutamente innocua. È incredibile!
Don Peppe posava, in quanto scout, con una signora e una ragazza con le quali si fa una foto insieme. Benchè il contesto e l’intenzione sono evidenti e malgrado fossero vestiti e in atteggiamento pudico, tanto basta perché si dica e scriva che il prete è un donnaiolo.
Questo è un meccanismo che ancora oggi esiste.
Questo è un meccanismo che tocca chiunque.
Questo è un meccanismo che serviva ed è servito a isolare la storia di Don Peppe.
Per questo serviva delegittimarlo, così come serve delegittimare sino alla fine tutti coloro che si oppongono alle organizzazioni criminali.
Perché?
Se Don Peppe non è né camorrista, né donnaiolo, allora devi prendere posizione altrimenti sei codardo, sei complice.
IL DEBITO DELLA CHIESA
La chiesa aversana in questa circostanza ha mostrato omissioni e reticenze.
Questa stessa Chiesa oggi deve recuperare una grande opportunità perché il solo sospetto, il solo silenzio fatto nei primi giorni, quasi quasi accondiscendendo alle calunnie delle mafie e non alla verità che emergeva dalla investigazione ha sfigurato il volto di Don Peppe ben oltre i cinque proiettili sparatigli in faccia.
La sentenza della Corte di Cassazione del 4 marzo 2004 ha affermato in via definitiva che Don Peppe Diana è stato ucciso per il suo impegno antimafia e per nessun’altra ragione.
Col passare degli anni qualcosa è cambiato, merito soprattutto del processo Spartacus.
L’inchiesta che ha cambiato i rapporti di forza tra giustizia e criminalità nel casertano, condannando gran parte dei capi storici come Schiavone e Bidognetti.
Negli ultimi anni anche i latitanti come Setola, Iovine e Zagaria sono finiti dietro le sbarre. Sicuramente rispetto al passato quella cappa si è completamente ridotta.
Rispetto al passato pronunciare parole come casalesi o camorra non è più tabù.
La bonifica culturale non è ancora ultimata.
L’eredità di Don Peppe si sedimenta nel tempo.
Don Peppe parlava di camorra come dittatura sul territorio.
La confisca dei beni dei mafiosi significa togliere spazio alla dittatura armata: la terra, le bufale, la mozzarella, il vigneto. Zolla per zolla, moggio per moggio. Sottrarre terra alla tirannia camorrista.
Quello che rimane è la verità e in verità Don Diana fu un martire.
“Per amore del mio popolo non tacerò”.
Non tacere significa raccontare, raccontare significa amare la propria terra, partecipare. In una parola, comprendere che nel momento in cui desideri vivere non puoi far altro di ribellarti.
La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica della società campana. I camorristi impongono con la violenza armi in pugno, regole inaccettabili.
È ormai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche, caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi.
La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, prima però di burocrazia e di intermediari che sono la piaga dello Stato legale, l’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità eccetera, non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi.
Per l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini le nostre comunità avranno bisogno di nuovi testimoni per essere credibili.
Che la Chiesa non rinunci al suo ruolo profetico, affinché gli strumenti della denuncia dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia e della solidarietà dei valori etici e civili.