CULTURA: Secondo Aristotele, il governo della città mediante l’educazione – paidèia – pubblica, coinvolge tutti. I cittadini devono essere educati, infatti, sia alle attività strumentali, quali la politica, sia alle attività fini a se stesse, cioè alla vita teoretica attraverso lo studio della grammatica, cioè il leggere e lo scrivere, del disegno e della musica, il che dimostra che per vita teoretica egli non intende solo l’esercizio della filosofia, ma anche quello delle attività culturali in genere. La “Politica” dello stagirita offre una visione integrata della vita politica, dove la città è vista come il mezzo naturale attraverso cui l’uomo può realizzare la propria natura e raggiungere la felicità. La sua analisi delle costituzioni e delle rivoluzioni, insieme alla sua visione dell’economia e della famiglia, fornisce un quadro completo della società ideale e delle sue dinamiche, rimanendo un riferimento fondamentale per la filosofia politica.

Nel viaggio apostolico di Sua Sanità Francesco in Ungheria del 30 aprile 2023 si tenne l’Incontro con il mondo universitario e della cultura nella  Facoltà di Informatica e Scienze Bioniche dell’Università Cattolica “Péter Pázmány” di Budapest. In tale contesto il Papa affermò “L’università è infatti, come indica il nome stesso, il luogo dove il pensiero nasce, cresce e matura aperto e sinfonico; non monocorde, non chiuso: aperto e sinfonico. È il “tempio” dove la conoscenza è chiamata a liberarsi dai confini angusti dell’avere e del possedere per diventare cultura, cioè, “coltivazione” dell’uomo e delle sue relazioni fondanti: con il trascendente, con la società, con la storia, con il creato. Afferma in proposito il Concilio Vaticano II: «La cultura deve mirare alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la società umana. Perciò è necessario coltivare lo spirito in modo che si sviluppino le facoltà dell’ammirazione, dell’intuizione, della contemplazione, e si diventi capaci di formarsi un giudizio personale e di coltivare il senso religioso, morale e sociale» (Cost. past. Gaudium et spes, 59). Già nei tempi antichi si diceva che l’inizio del filosofare è l’ammirazione, la capacità di ammirazione”.

 In tale sentiero di riflessione è necessario uno sguardo nuovo che ponga la cultura dei classici alla base della visione politica perché non possiamo comprendere il presente e pensare al futuro se non conosciamo i pilastri della tradizione. Nella lettura della filosofia politica di Aristotele si coglie il ruolo della pòlis e della vita comunitaria, fondamentale per la realizzazione della natura umana e nella ricerca della felicità. Aristotele sostiene che l’uomo è per natura un animale politico, destinato a vivere in comunità. Secondo la filosofia peripatetica, il singolo individuo non è autosufficiente; la sua natura lo porta a unirsi con altri individui per formare la famiglia – òikos -, il villaggio e infine la pòlis. 

Oikos è l’unità base della società, atta a soddisfare i bisogni quotidiani, mentre il villaggio emerge per rispondere ai bisogni non quotidiani. Tuttavia, solo nella città l’uomo può raggiungere il fine ultimo del vivere bene, cioè la felicità. Per Aristotele, la città è una comunità perfetta e autosufficiente, costituita per perseguire non solo la sopravvivenza, ma il vivere bene. È fondata sulla giustizia e sull’amicizia, elementi essenziali per una vita comunitaria armoniosa. La capacità dell’uomo di parlare e discutere su cosa è giusto e ingiusto è un segno della sua naturale tendenza a vivere nella città. La società politica, dunque, per Aristotele, è fondata sulla natura stessa dell’uomo. Ciò non significa che essa sia sempre esistita o che non sia stata fatta dall’uomo, ma che è necessaria alla realizzazione piena della natura umana. La natura umana, infatti, non è per Aristotele la condizione primitiva dell’uomo, quella, per così dire, del selvaggio, ma è il suo pieno sviluppo, la realizzazione piena delle sue capacità, ossia quella che oggi chiameremmo la civiltà, in latino civilitas, derivante da civitas, città. 

Prima di studiare a fondo la città, vero tema della Politica, Aristotele si sofferma sulla famiglia, ovvero sull’òikos, lo studio della quale è da lui chiamato economia – oikonomìa, letteralmente governo della casa -, parola che ha un significato diverso da quello moderno. Nel governo della casa, o economia, rientra anche la cosiddetta crematistica – da chrèmata che significa i beni, gli averi-, cioè l’arte di procurarsi i mezzi necessari per sopravvivere. Questa, secondo Aristotele, è giusta, e quindi fa parte di una sana economia, nel senso aristotelico del termine, quando si limita a procurare i mezzi veramente necessari per vivere. Quando invece, come accade in genere, essa tende ad un acquisto illimitato di beni ,come nel caso in cui si comprano e si rivendono merci solo al fine di accumulare la più grande quantità possibile di denaro, allora è ingiusta e non fa più parte dell’economia. È evidente che questo secondo tipo di crematistica, cioè quella che Aristotele considera ingiusta, corrisponde all’economia nel senso moderno del termine. Aristotele la condanna, come condanna anche il prestito a usura, ma tuttavia la studia, l’analizza e ne scopre alcuni importanti elementi, quali la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio, la funzione del denaro, la tendenza all’accumulazione illimitata. Passando ad analizzare la città, Aristotele si domanda quale sia la costituzione migliore, dove per costituzione – politèia – egli intende l’ordinamento delle cariche all’interno della pòlis, in particolare la determinazione della carica più alta, cioè l’indicazione di chi debba esercitare il potere supremo. A questo proposito egli critica anzitutto le costituzioni proposte da Platone, sia quella utopistica della Repubblica che quella, più moderata, delle Leggi. La prima, secondo Aristotele, è sbagliata perché, nell’intento di assicurare alla pòlis la maggiore unità possibile, trascura il fatto che la città è, si unità, ma unità di una molteplicità, cioè unità di molte famiglie. La famiglia, perciò, non deve essere abolita, come pretende Platone nella “Repubblica”, perché essa è naturale, così come non deve essere abolita la proprietà privata, necessaria alla vita della famiglia. La costituzione delle “Leggi” è migliore, perché conserva la famiglia, ma è ancora, secondo Aristotele, troppo oligarchica perché affida il governo supremo a pochi cittadini. Aristotele riprende la classificazione delle possibili costituzioni fatta da Platone nel “Politico”, cioè il governo di uno, di pochi o di molti, distinguendo, per ciascuno di questi, due forme, buona e cattiva, a seconda che si governi nell’interesse dei governanti o nell’interesse dei governati: abbiamo così, rispettivamente, regno e tirannide, aristocrazia e oligarchia, politìa e democrazia. Col nome di “politìa”, cioè il greco politèia, che significa la stessa “costituzione”, e dunque la costituzione per antonomasia, Aristotele indica la forma buona del governo di molti

Per gli Ateniesi la costituzione migliore è la politìaQuesta, infatti, è la costituzione più adatta alla pòlis intesa come “società di liberi ed uguali”, dove tutti i cittadini possono pervenire mediante elezione o sorteggio alle cariche politiche e partecipare, nelle assemblee, alle deliberazioni più importanti. La politìa è buona, per Aristotele, anche perché è una specie di “giusto mezzo” fra due vizi opposti, l’oligarchia e la democrazia: è, cioè, una democrazia moderata. L’oligarchia, infatti, è praticamente il governo dei ricchi (questi, infatti, sono i “pochi”), mentre la democrazia è il governo dei poveri (che sono i “molti“). La politìa, invece, è il governo di coloro che non sono né troppo ricchi né troppo poveri (oggi diremmo dei “ceti medi”), anzi è la costituzione in base alla quale nella città si ottiene un’equa distribuzione delle ricchezze. La politìa è anche la costituzione più stabile, cioè meno soggetta a quei cambiamenti di costituzione che sono le rivoluzioni. Aristotele, sviluppando alcune indicazioni fornite da Platone nella “Repubblica”, ma soprattutto basandosi sulla sua raccolta di ben 158 costituzioni reali (di cui ci è pervenuta solo la “Costituzione degli Ateniesi”), ha fornito una celebre analisi delle rivoluzioni, in cui indica tutti i motivi per cui queste possono prodursi e tutti i rimedi con cui si possono evitare. In genere, osserva Aristotele, le rivoluzioni si producono quando una costituzione è causa di gravi ingiustizie, per esempio nella distribuzione delle ricchezze; non sempre, però, la costituzione nuova, risultante dalla rivoluzione, è più giusta di quella vecchia. A volte, ad esempio, si rovescia un’oligarchia e si instaura una democrazia che a poco a poco però si trasforma in tirannide per l’azione dei demagoghi che cercano l’appoggio del popolo contro i ricchi. Oltre a indicare la migliore costituzione, cioè la migliore forma di governo, Aristotele indica nella “Politica” anche a che cosa deve tendere il governo, cioè che cosa devono fare i governanti per assicurare il “vivere bene”, ovvero la felicità dei cittadini, vero fine della pòlis. Dopo aver ribadito la superiorità della vita teoretica sulla vita politica, egli afferma che la città più felice sarà quella in cui sarà consentito a tutti i cittadini di dedicarsi in qualche misura alla vita teoretica

Questo risultato si può ottenere assicurando soprattutto due condizioni: la pace e il tempo libero (in greco scholè, in latino otium)

Aristotele non è pregiudizialmente contro la guerra, anzi considera giusta la guerra di difesa, specialmente da parte dei Greci contro i barbari, ma ingiusta la guerra continua, suscitata al solo scopo di aumentare la potenza della pòlis. La guerra, per Aristotele, è un mezzo necessario ad assicurare la pace, suo unico fine. Altrettanto si può dire del disbrigo degli affari (ascholìa, contrario di scholè, come negotium è il contrario di otium), cioè delle attività economiche e politiche. Queste sono necessarie e quindi giuste, ma non bisogna dimenticare che si tratta soltanto di mezzi; il fine è un buon impiego del tempo libero, che consiste nello svolgere attività non in vista di altro, ma per il valore che hanno in se stesse, quali sono appunto le attività teoretiche. Pertanto ci si deve dedicare al disbrigo degli affari solo per quel tanto che è necessario ad assicurare una certa disponibilità di tempo libero. Per quanto concerne in particolare gli affari politici, questo risultato è assicurato dall’assunzione delle cariche “a turno” da parte di tutti i cittadini, come può avvenire in una democrazia rettamente intesa. Nel momento, infatti, in cui alcuni governano, cioè si fanno carico degli affari politici, gli altri dispongono del tempo libero per dedicarsi alle attività teoretiche ed essere felici. Come si vede, in questa concezione il governare è visto essenzialmente come un servizio reso agli altri – Aristotele usa proprio il termine greco liturgìa, che significa prestazione a favore di altri, cioè servizio – : la felicità si ottiene non governando, ma essendo governati bene, in modo da essere liberi di fare altre coseNaturalmente per dedicarsi, nel tempo libero, alle attività teoretiche, è necessario disporre di una certa cultura.