Nel giro di pochi giorni, l’Italia ha assistito a due drammi tanto simili quanto devastanti: la morte di Sara Campanella, giovane studentessa siciliana accoltellata per strada a Messina da uno stalker; e il ritrovamento del corpo di Ilaria Sula, appena ventenne, chiuso in una valigia, dopo giorni di scomparsa a Roma. Anche lei, studentessa universitaria — frequentava però la Sapienza, viveva nel quartiere di San Lorenzo di Roma — anche lei, uccisa con decine di coltellate da un ragazzo con cui aveva avuto una relazione.
Cosa ci stanno dicendo questi fatti? Come può accadere che in età così giovane — quando l’amore dovrebbe essere scoperta, crescita, entusiasmo — si consumino invece tragedie così profonde? La risposta, purtroppo, è davanti a noi, ma fa fatica ad essere accolta: la nostra è una società affettivamente malata, che non ha più gli strumenti per educare all’amore e che ha confuso la libertà con l’onnipotenza, la relazione con il possesso.
I profili psicologici di chi commette questi omicidi, in apparenza ordinari, parlano spesso di insicurezza narcisistica, di dipendenza affettiva, di rabbia repressa che esplode quando il legame si rompe. Ma c’è un dato più profondo, e inquietante: l’incapacità di tollerare il rifiuto. Non riuscire a sopportare che l’altro possa decidere di andarsene. E, più ancora, non sopportare l’idea di non controllarlo. In questi “amori tossici” — che nulla hanno a che vedere con l’amore — l’altro non è mai veramente un “altro”, è solo uno specchio, un oggetto da trattenere. Quando lo specchio si rompe, si distrugge anche tutto il fragile mondo interiore che ci si era costruiti intorno.
Non è un caso che queste tragedie avvengano in ambienti giovanili, apparentemente “normali”, in contesti universitari dove i ragazzi dovrebbero imparare ad aprirsi al mondo. Ma non si cresce davvero se nessuno ci ha insegnato a elaborare la frustrazione, a dare un nome ai sentimenti, a chiedere aiuto quando si è sopraffatti. L’educazione sentimentale oggi è quasi inesistente: né la scuola, né le famiglie, né la società sembrano avere più parole forti e credibili da offrire.
Viviamo immersi in una cultura iperconnessa ma isolata, che promuove relazioni veloci, spesso virtuali, dove la profondità è vista come debolezza e la cura come perdita di tempo. In questo contesto, anche l’ideale maschile dominante resta ancora tossico: fondato sul controllo, sull’invulnerabilità, sull’orgoglio ferito che “deve reagire”. Ma non c’è alcuna virilità nel coltello che uccide. Solo abisso, fallimento, disperazione.
Dobbiamo dircelo con chiarezza: serve un’alleanza tra educatori, genitori, comunità e media per ricostruire una grammatica dell’amore. Serve rieducare al rispetto, all’empatia, al limite. Occorre parlare ai ragazzi non solo di sesso o di consenso, ma di relazioni, emozioni, conflitti, perdono, separazioni. E soprattutto di libertà vera: quella che non annienta l’altro, ma lo riconosce nella sua dignità.
Di fronte ai corpi spezzati di Sara e Ilaria, due valigie svuotate del loro futuro, l’Italia non può limitarsi a piangere. Deve anche imparare. Deve anche cambiare.